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Volevo imboscarmi e ho preso il Nobel

«La mia vita è stata un sogno: ma non il mio sogno originale, perché in realtà volevo fare il medico, e non avrei mai immaginato di diventare un ricercatore o di fare scoperte importanti». Così dice Harvey Alter, Nobel per la medicina 2020 insieme a Michael Houghton e Charlie Rice, per la scoperta del virus dell’epatite C. «So che da qualche parte in America c’è un medico che sta vivendo il mio sogno e si duole che qualcuno abbia rubato il suo. Vorrei incontrarlo per ringraziarlo dello scambio: non avrei potuto sognare nulla di meglio».

Non pensava certo al Nobel Harvey Alter quando, negli anni Settanta, identificò nel sangue dei politrasfusi un virus ignoto, avviando così la lunga lotta scientifica all’epatite C, che può causare epatite sia acuta che cronica, e provocare cirrosi e cancro al fegato.

La notizia del Nobel è sempre un momento particolare. Lei come l’ha ricevuta?
«Erano le 4.15 di mattina, qui a Washington. Mia moglie ed io stavamo dormendo. Quando è squillato il telefono ho deciso di non rispondere, perché durante il giorno siamo tempestati dal telemarketing. Immaginavo potesse essere qualche call center politico (eravamo in piena lotta Trump-Biden) o qualcuno che voleva estendere l’assicurazione della mia auto. Dopo cinque minuti però il telefono suonò di nuovo. Ancora una volta non ho risposto, sperando la smettessero. Alla terza chiamata ho preso il telefono, molto irritato, ma mi sono sentito dire: “Chiamo da Stoccolma per dirle che lei ha vinto il Premio Nobel”. Ho risposto che quella era la migliore sveglia che avessi mai avuto nella mia vita».

Ha mai pensato che avrebbe potuto vincere il Nobel?
«In realtà no, perché la lotta contro il virus dell’epatite C è stata un processo fatto di molti passi: gli studi sono andati avanti per trent’anni. Il mio lavoro, che è l’inizio della storia, è stato identificare un virus sconosciuto. Poi Michael Houghton è riuscito a clonarlo, e Charlie Rice ha dimostrato che quel virus da solo poteva causare l’epatite»

Com’era a scuola, da ragazzo?
«Ho avuto un percorso un po’ particolare. Siccome ero piccolino e molto esile, alle medie mi misero in una classe per bambini con “bisogni speciali”. Il mio problema era il peso, per altri la dislessia o qualche altro disturbo. Da un lato mi dispiaceva essere in quella classe. Ma poi è tornato a mio vantaggio, perché lì ero il più bravo di tutti. E ho guadagnato un anno».

Qual è stato il momento che ha influenzato di più la sua carriera?
«Una lettera che mi arrivò nel 1961, quando lavoravo come medico allo Strong Memorial Hospital di Rochester. Era l’anno della Crisi di Berlino, con l’Urss che chiedeva il ritiro delle truppe americane da Berlino Ovest: uno dei momenti più caldi della Guerra fredda. Nell’esercito c’era carenza di medici e così molti vennero reclutati. La lettera era appunto la mia chiamata alle armi. Dei colleghi mi dissero che se avessi trovato un posto al National Institutes of Health (Nih) prima dell’arruolamento, avrei potuto evitarlo. Riuscii a trovare il posto tre giorni prima della convocazione a Fort Dix, nel New Jersey. Così, invece di finire nei “berretti verdi”, finii nei “berretti gialli”: una confraternita di altri medici, come me, imboscati al Nih. Scherzi a parte, fu così che lasciai la pratica medica per dedicarmi alla ricerca. Se non fosse successo, per caso, tutto questo, avrei continuato per tutta la vita a fare il medico, come desideravo».

Come sono iniziate le sue ricerche?
«Il mio primo progetto di ricerca fu contribuire alla scoperta del virus dell’epatite B. Gli emofilici, per via delle frequenti trasfusioni, avevano più probabilità di formare anticorpi contro i virus nel sangue. Noi mettevamo a contatto campioni di sangue di persone diverse cercando di identificare a che cosa di preciso reagissero gli anticorpi. Era quella la strada per scoprire virus ignoti. Un giorno mi accorsi che gli anticorpi di un paziente emofilico reagivano a una proteina che era nel sangue di un aborigeno australiano. Chiamai quella proteina “l’antigene Australia”. In quel momento non avevamo idea di cosa fosse. Cinque anni dopo risultò essere una proteina caratteristica del virus dell’epatite B, scoperto dal mio mentore Baruch Blumberg, che per questo ottenne il Nobel. Fino a quel momento non esisteva alcun marcatore per l’epatite: potevi diagnosticarla solo dai sintomi o dall’innalzamento anormale degli enzimi del fegato».

E come arrivò invece a scoprire il virus dell’epatite C?
«Negli anni Settanta, nonostante la scoperta dell’epatite B avesse permesso di escludere dalle banche del sangue quello infetto da quel virus, notai che un gran numero di pazienti emotrasfusi sviluppava comunque epatite cronica, per via di un agente infettivo che sembrava anch’esso un virus. Quando nel 1973 venne scoperto il virus dell’epatite virale A, e messo a punto un test, ricontrollai tutti i campioni di sangue che avevo raccolto e mi accorsi che il mio patogeno misterioso non era nemmeno l’epatite A. Così nel 1975, con una trovata che forse non impressiona per originalità, definii l’oggetto della mia ricerca: “epatite non-A e non-B”. Non potevo ancora chiamarla “epatite C”: avevo intuito che era un virus, ma non ne avevo la prova».

Prova che poi troveranno gli altri due colleghi Nobel. Ma come si cura oggi l’epatite C?
«Sequenziando il virus dell’epatite C si è capito che è un flavivirus, un virus formato da un filamento singolo di Rna, e si sono quindi potute sfruttare le conoscenze ricavate dalla lotta contro altri flavivirus, come quello della febbre gialla e della dengue. Così Mike Sofia di Gilead ha sviluppato un farmaco che colpisce un punto cruciale nel ciclo di replicazione del virus e lo neutralizza. Una cura che ha del miracoloso: con una pillola al giorno per 2-4 mesi si guarisce in quasi il cento per cento dei casi».

Avremo mai un vaccino?
«Sarà difficile, perché il virus muta molto rapidamente. E, quando ti infetta, ti entra nel sangue presentandosi già in molteplici varianti. Anche se puoi indurre, con un vaccino, gli anticorpi a neutralizzare la variante dominante, un’altra variante può prendere il suo posto. Comunque Michael Houghton ci sta lavorando».

Cosa è cambiato di più per lei dopo il Nobel?
«Beh, è stata una bella svolta. Il giorno prima del premio, hai fatto quello che hai fatto e sei solo uno dei tanti scienziati del Nih. Il giorno dopo, sei di colpo un genio che ha salvato il mondo e una fonte di saggezza…».

Lei è noto tra gli scienziati anche per il suo humour…
«Lo uso soprattutto quando insegno. Ricordo che avevo difficoltà a seguire le lezioni all’università: dalla mia esperienza ho capito che se ogni dieci minuti di discorso inserisci una battuta, aiuti gli studenti a non addormentarsi».

Dica la verità: sotto sotto sa che il Nobel l’ha resa immortale.
«Guardi che io, come disse Woody Allen, non ricerco l’immortalità attraverso le mie opere. Più semplicemente, vorrei diventare immortale non morendo. Vede, quella resta l’opzione migliore».

Sul Venerdì del 18 dicembre 2020

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