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Quando scoprii il corpo del teatro

"'A rivoluzione è scuppiata! 'A rivoluzione nun se fa cchiu! 'A rivoluzione è viva! 'A rivoluzione nun parla cchiù! Muta, sé fatta. Sconfitta per sempre. Sconfitta? Ma che dico? Inespressa, piuttosto, chissà?".
Nel 1999 chiesero a Enzo Moscato di mettere insieme uno spettacolo che ricordasse, a distanza di duecento anni, i martiri del '99, di quella rivoluzione implosa che fu la grande sconfitta della borghesia napoletana. Ne venne fuori Sull'ordine e il disordine dell'ex macello pubblico, spettacolo/ manifesto/ dispositivo scenico-filosofico, incendiario e memorabile.

In oltre trent'anni di vita e di lavoro, insieme a colui che posso considerare – oltre che mio fratello, amico, complice – il mio sciamano, se oggi mi viene chiesto di esprimere un pensiero sul teatro, non riesco a prescindere da quell'esperienza. Più passa il tempo, più sono convinta che in quella visionaria veglia si conservino gli elementi più vivi e resistenti di chi ancora oggi, nonostante tutto, si ostina a stare sulla scena e si definisce attraverso questa condizione.
"I corpi del '99, i nomi del '99, il sangue versato del '99 furono del '99" disse Enzo, all'epoca. "Oggi sono, e non possono non essere, che fantasmi, voci senza carne. Virtualità. Interrogazioni. Ambigui soffi. Sospensioni".

Aprire quella porta assieme a lui fu un lavoro da anatomopatologi dell'invisibile. Significava riesumare dei resti, portarli in vita, mettendoci sangue, polmone e scheletro. Il sangue furono le parole di Enzo cantore, epico de-narratore dell'universo-mondo Napoli che è, in sé, metafora e archetipo di una condizione esistenziale. Il polmone furono le voci, il soffio degli attori. Lo scheletro il segno scenografico – ben lontano dall'essere una canonica scenografia – di Mimmo Paladino che ci donò i volti della Rivoluzione: le teste mozzate con cui i bambini attori, nel finale, giocavano a pallone.

Insieme, Enzo e io, creammo questo tessuto di muscoli, trame, orditi: in particolare la musica e i suoni che accompagnavano i soffi dei fantasmi/martiri del '99 e di tutti i martiri che si sarebbero poi accumulati nel corso dei secoli a venire, non solo a Napoli.

"Forsan haec olim meminisse iuvabit", "E forse un giorno gioverà ricordare tutto questo", queste le parole di Virgilio usate da Eleonora Pimentel Fonseca a Piazza Mercato poco prima di essere giustiziata. 1799, 1999, 2020 la Rivoluzione non è mai passata. Anzi, forse rispetto al teatro, è ancora più feroce. Noi siamo nella Rivoluzione. Oscilliamo continuamente tra un ordine apparente e un disordine esistenziale, emotivo, di vita.
Mi rifaccio a Enzo, quando dice, "il teatro è eterna replicanza, non del medesimo ma dell'altro". Anche se non si è consapevoli di questo, è così. Il teatro è sempre altro e anche quando si sta nella replicanza avrebbe bisogno di tanto in tanto che qualcuno lo ri-teorizzasse. Prima di tutto nella pratica. Poi, dalla pratica nasce una nuova teoria. "Pensiamo a Leo" dice Enzo. "Gli attori li faceva innanzi tutto divertire. C'erano delle invenzioni sceniche continue, anche rispetto a un copione dato. E da qui si diceva: cosa abbiamo fatto? Siamo andati sul classico a riscriverlo". Enzo parla di "tradinvenzione": hai a che fare con uno statuto che è tradizionale, che appartiene al passato, alla classicità ma non c'è niente da fare, lo devi riscrivere, continuamente. Allora, o lo riscrivi in scena ed è un lavoro sugli attori, o lo passi in scrittura e poi, sugli attori. Il classico non è una cosa morta, è una provocazione continua a essere ridetto, riscritto. Quello che deve accadere fuori, se non accade dentro, non può esistere. Ci dev'essere un rapporto molto stretto tra quello che fai e quello che accade dentro e fuori di te. Questo è essere rivoluzionari. Se non c'è una consapevolezza della necessità sociale di quello che stai facendo, sei destinato a morire. Non si può parlare di sé, senza parlare dell'altro da sé. Non può essere. "Le même et l'autre".
Parlare e scrivere di teatro, oggi, non può che (ri)condurmi a Enzo. Per me il Teatro ha il colore dell'assenza, sono precisamente trentaquattro anni che Enzo ed io ci siamo trovati e ri-conosciuti, quando siamo stati attraversati dal medesimo dolore per la scomparsa di Annibale Ruccello e Stefano Tosi che, in una calda sera di settembre del 1986, volarono via insieme. Quel senso di vuoto lasciato in entrambi è stato riempito dalla pratica vitale della scena. Enzo mi ha insegnato che non esistono la vita da una parte e il teatro dall'altra. La compresenza è totale. O e così o non è. In questi trentaquattro anni, ogni spettacolo è stato un pezzo di vita preso e messo lì.
Oggi il teatro è di nuovo in pericolo e i teatranti sono più che mai funamboli, eppure tutto questo è anche una condizione di creatività, in cui la poesia ci indica la strada. Occorre allora, ancora una volta, affidarsi ai poeti. Mi viene in mente la traduzione in lingua moscatiana di una delle frasi di Eleonora Pimentel Fonseca, il cui soffio mi attraversò in quel lavoro a me così caro: "'E pporte chiuse s'hanna arapì, l'aria pulita adda trasì int' o' tempio"…
Sul Venerdì dell'11 dicembre 2020

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