Quando scoppia la primavera araba yemenita, il Paese è già funestato da due gravi conflitti poiché nel 2011 il governo di Sana’a combatte nel nord contro le milizie sciite huti, tribù separatiste finanziate dalla Repubblica islamica dell’Iran, e nelle province di Jawf, Shabwa e Marif contro le cellule di Al Qaeda. All’epoca, lo Yemen è segnato da una povertà più profonda di quella che affligge altri Paesi del mondo del mondo arabo, con il 40% della popolazione che vive con 2 dollari al giorno o anche meno, e un terzo che deve fare i conti con la fame cronica. Nelle province settentrionali, già intenzionati a conquistare l’egemonia del Paese, gli Huti cominciano a cavalcare le proteste in corso contro la corruzione dilagante e dell’aumento vertiginoso dei prezzi dei generi di prima necessità. Proteste che invocano profonde riforme politiche e la rimozione del presidente Ali Abd Allah Saleh, alleato degli americani contro gli islamisti e al potere da 33 anni.
Le manifestazioni
Dal 18 gennaio, da Sana’a, le manifestazioni si allargano a molte città, tra cui Taizz e Aden, quest’ultima roccaforte dell’opposizione secessionista che da anni chiede la ricostituzione dello Yemen del Sud. Il 25 febbraio sono decine di migliaia le persone che scendono in strada nella capitale, ma il corteo è spaccato in due, tra sostenitori e avversari del presidente Saleh.
Come altrove, il primo marzo viene organizzata la “giornata della rabbia”, per ricordare la trentina di persone uccise nelle manifestazioni. Nel tentativo di calmare le opposizioni, Saleh promette una nuova Costituzione e un regime parlamentare con una chiara separazione dei poteri. Ma la sua proposta arriva troppo tardi, provocando altre violente manifestazioni. Il 18 marzo la polizia assieme ai sostenitori del regime uccide diverse decine di persone. Due giorni dopo, il presidente silura l’esecutivo che accusa per la strage dei civili. Il 21 marzo, una ventina di generali e alti funzionari del regime, nonché il governatore di Aden, annunciano il loro appoggio ai ribelli.
I paesi del Golfo
Un’altra strage è compiuta il 4 aprile, con decine di rivoltosi uccisi dall’esercito a Sana’a e Taizz. Intanto, incaricato di trovare la mediazione per risolvere la crisi nel Paese, il Consiglio di Cooperazione del Golfo propone l’uscita di scena di Saleh in cambio della sua immunità. Ma il piano fallisce. Il 22 maggio, Saleh rifiuta nuovamente di accettare un nuovo tentativo di mediazione, mentre continuano gli scontri in tutto il Paese, aggravati da una recrudescenza delle offensive qaediste nel sud. Il 3 giugno il presidente Saleh è vittima di un attentato in una moschea della residenza presidenziale e gravemente ferito fugge in Arabia Saudita.
La morte di Saleh
Viene nel frattempo trovato un accordo tra le fazioni ribelli e l’esercito lealista, ma non nelle province meridionali dove si continua a combattere contro Al Qaeda. Il 27 giugno, dal suo letto d’ospedale, Saleh annuncia il suo ritorno, promettendo elezioni anticipate, un governo di coalizione e una riforma istituzionale che dia forti poteri al Parlamento. In realtà, darà le dimissioni solo il 27 febbraio 2012. Il 4 dicembre 2017, durante un tentativo di fuga da Sana’a, Saleh viene centrato da un cecchino. L’assassinio sarà rivendicato da ribelli Huthi, padroni della capitale dal 2014.
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