Prima di diventare un impeccabile accademico, rifugio di ogni giornalista occidentale in cerca di una rapida intervista su Islam, democrazia, jihad (o lui, o il suo "rivale" Gilles Kepel), Olivier Roy è stato giovane. Nel '68 aveva 19 anni e a Parigi militava in un gruppo maoista, la Gauche prolétarienne. L'anno dopo, infischiandosene dell'esame finale all'École Normale, raggiungeva l'Afghanistan in autostop – e con un pregiudizio orientalista di cui presto si pentì. È rievocando quel tempo giovane, suo e dell'Occidente, che a Roy – oggi docente all'Istituto universitario europeo di Fiesole e autore per Feltrinelli di libri come Generazione Isis e L'Europa è ancora cristiana? – chiediamo un bilancio delle Primavere arabe, a dieci anni dal giorno in cui in Tunisia il 26enne Mohamed Bouazizi si diede fuoco.
L'espressione "Primavera araba" fu coniata da Marc Lynch su Foreign Policy in analogia con le "primavere" occidentali del 1848 e con quella di Praga del 1968: anche lì un giovane, Jan Palach, si diede fuoco. Le rivolte che a partire dal 2010 hanno infiammato molti Paesi arabi si possono davvero paragonare al '68?
"Certo. Anzitutto perché tra le tante ragioni che si possono elencare per spiegarne la nascita – la lotta per la democrazia e i diritti umani, la povertà, la corruzione del sistema – mi pare che la principale sia il desiderio di ribellione di una nuova generazione, la richiesta di dignità da parte dei giovani. La Primavera araba è stata tipicamente un movimento sessantottino: non aveva un'organizzazione, apparentemente ha fallito, è stata dirottata dagli estremisti e ha provocato un contraccolpo conservatore".
Lei ha anche scritto come la sua esperienza nella Gauche prolétarienne le sarebbe servita più tardi "per comprendere la logica dei giovani che si uniscono ad Al-Qaeda". È un corollario della sua tesi della islamisation de la radicalité, avversata da colleghi come Kepel, secondo cui tra i giovani jihadisti il radicalismo anti-sistema conta più del Corano.
"Sì, terroristi di sinistra e jihadisti vogliono fare entrambi tabula rasa della società, creare un Uomo nuovo attraverso la violenza purificatrice. Non è un caso che i leader di quella Gauche in cui militavo, a differenza di tanti trotzkisti dell'epoca, non abbiano fatto carriera politica e si siano anzi dati alla religione: Benny Lévy (ex segretario di Sartre, ndr) divenne rabbino, mentre Christian Jambet si è dato al misticismo sciita".
Tornando ai giovani della Primavera araba: è una lost generation?
"No, la Primavera araba non è stata inutile, ha trasformato in positivo la cultura politica. Ha distrutto il mito del leader carismatico nella regione e anche l'illusione di quel noi collettivo, arabo o islamico, che era sfruttato dai regimi. Ha portato un nuovo individualismo, di cui il blog è un'espressione esemplare, con la richiesta dei diritti individuali. Sempre rimanendo al paragone con il '68, non si può dire che sia stata una rivoluzione sessuale, ma una rivoluzione di genere sì: per la prima volta abbiamo visto le donne in prima linea, cosa che non era successa con le precedenti rivolte".
Dieci anni fa, dopo il suicidio dell'ambulante tunisino, intuì che quelle fiamme si sarebbero propagate in tutto il mondo arabo?
"Ricordo che non mi sorprese che la Tunisia si ribellasse a Ben Ali, era un Paese che conoscevo bene e in cui la gente osava scendere in strada. Rimasi invece molto stupito della sollevazione dell'Egitto. E solo allora, quando l'11 febbraio 2011 Mubarak si dimise, mi dissi che sì, ci sarebbe stato un effetto domino".
Quattro dittatori sono stati abbattuti (Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia, Saleh in Yemen). Eppure, tranne poche eccezioni, in fatto di democrazia e diritti pare di assistere ormai a un "inverno arabo". Cos'è andato storto? Quelle società non erano pronte per la democrazia?
"Il problema è stato che il movimento non si è saputo trasformare in un partito, e non aveva nemmeno un'ideologia o un programma che non fosse solo 'più democrazia'. Si è creato un vuoto politico, di cui hanno approfittato prima gli islamici radicali e poi l'ancien régime".
I social media, di cui si cantò il ruolo di acceleratore, si sono rivelati uno strumento sopravvalutato?
"Hanno rappresentato il trionfo di un mezzo di comunicazione straordinario. Ma non hanno creato una nuova cultura, non potevano certo sostituirsi a una vera organizzazione politica. Non è colpa loro, non ci si poteva aspettare di più".
Qual è oggi è il Paese in cui la Primavera ha dato i frutti migliori?
"In termini politici proprio la Tunisia. C'è stata una vera transizione democratica. Ma l'economia rimane un problema serio. Marocco e Giordania hanno rappresentato delle eccezioni, sono state poco attraversate dalle proteste perché i sistemi erano già allora più aperti, a livello di Costituzione, elezioni e libertà d'espressione. Ma oggi anche lì c'è forte malcontento per la situazione economica".
L'Europa può fare qualcosa per aiutare la diffusione della democrazia in Medio Oriente, o è meglio che non faccia nulla?
"Il problema è che ormai le popolazioni sono sospettose. Gli interventi militari dell'Occidente non hanno funzionato, anzi sono stati controproducenti, come l'invasione in Iraq".
Un caso concreto e che ci sta a cuore. L'Italia dovrebbe smettere di fare affari con l'Egitto finché non fa giustizia sui casi Regeni e Zaki?
"Dirò una cosa cinica. Le pressioni di un singolo Paese non possono fare la differenza, soprattutto se davanti c'è un regime sostenuto dagli Stati Uniti, dall'Arabia Saudita e dagli Emirati. Servirebbe un impegno della Ue".
Con la presidenza Biden cambierà l'atteggiamento americano?
"Penso che gli Stati Uniti punteranno ora di più sulla stabilità, saranno meno conflittuali politicamente. Continueranno a stare alla larga dagli interventi militari e a sostenere solo a parole la democrazia. Più come nell'era Obama che in quella Clinton. Al massimo Biden si opporrà alla guerra saudita ed emiratina nello Yemen, mentre nei confronti di Israele e Palestina si limiterà a congelare la situazione".
Intanto, con l'Occidente in ritirata, in Siria e in Libia cresce l'egemonia di due potenze autoritarie come la Russia e la Turchia.
"È vero, ma penso si tratti di un'egemonia debole, esercitata con mezzi low cost rispetto a quanto fatto dagli Usa in Iraq. E non hanno neanche preso il posto dell'Occidente dal punto di vista economico. La Turchia moderna è nuova a queste forme di influenza, mentre la Russia esprime più che altro una forma di nostalgia dei tempi sovietici. In entrambi i casi, per contare, hanno bisogno del conflitto e dell'instabilità, sia in Siria sia in Libia. E non è positivo".
In questi dieci anni è tornato spesso nei Paesi che studia?
"Sì, nel Maghreb, nel Golfo, in Turchia, mentre ho smesso di frequentare l'Egitto anche per solidarietà con il caso Regeni. Mi manca molto la Siria, che a fine anni 70 era bellissima".
Sui social network va di moda il gioco di meme How it started/ How it's going. Si giustappongono due foto per raccontare come eravamo, e come siamo ora. Per la Primavera araba direi di mettere la foto di Bouazizi, perché è così che è iniziata. Ma accanto? Quale immagine ci dice "come sta andando"?
"Negli ultimi tempi le proteste democratiche sono tornate a essere protagoniste in Iraq, in Libano e in Sudan, un Paese sottovalutato dall'Occidente e dove il movimento ha dimostrato grande maturità politica. Se dovessi scegliere un'immagine, sceglierei quelle piazze. Meglio ancora, quella del movimento Hirak in Algeria. Giovani, donne, di nuovo protagonisti. Voglio dire che il vento della Primavera araba non ha smesso di soffiare".
Una curiosità. La sua pagina Wikipedia dice che dopo il '69 lei tornò in Afghanistan nell'80 per combattere contro i sovietici? Ma è vero?
"No, non combattei. Ma imparai a sparare, questo sì. E fu a Kabul che mi appassionai allo studio dell'Islam".
Sul Venerdì dell'11 dicembre 2020Original Article
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