AGI – "Umanamente non posso che essere soddisfatto. È l'ennesima assoluzione di una teoria di processi imbastiti fin dal 1991 per giungere sempre, lungo la linea dell'assurdo quindi della non verità, a quest'ultimo processo nel quale artificiosamente e senza fondamenti alcuni, si è tentato di attribuirmi una qualche responsabilità". Lo dice all'AGI l'ex ministro Dc, Calogero Mannino, dopo la sentenza di assoluzione pronunciata questa mattina dalla Cassazione, sul processo sulla trattativa Stato-mafia.
Mannino era già stato assolto in primo e in secondo grado. "Anche in questo processo – prosegue Mannino – ha giocato un vizio, ovviamente deliberato, che hanno assunto con la linea dell'ossessione inquisitoria alcuni magistrati della procura di Palermo e della procura generale. E cioè che non ucciso dalla mafia, Mannino andava colpito dall'antimafia, in modo letterario. Un compito unico su versanti opposti, al di là dell'ingiustizia della quale sono stato fatto segno con accuse rivelatesi sempre infondate che hanno portato sempre ad oltre dieci sentenze di assoluzione".
La decisione della Suprema Corte, giunta dopo lo svolgimento da remoto, è stata in linea con le richieste, avanzate nei giorni scorsi con requisitoria scritta, dalla procura generale della Cassazione, che si era pronunciata per l'inammissibilità del ricorso dei magistrati di Palermo. La procura generale del capoluogo siciliano era ricorsa in Cassazione contro la sentenza della Corte d'appello che, il 22 luglio 2019, aveva confermato l'assoluzione dell'ex ministro Dc dalle accuse rivoltegli nell'ambito del processo Stato-mafia. Mannino, giudicato con rito abbreviato, era già stato assolto in primo grado dal gup di Palermo nel 2015.
Nuovo colpo alla tesi della trattativa
A gennaio di quest'anno il deposito delle motivazioni di oltre mille pagine. Il processo d'appello era iniziato il 10 maggio 2017. L'accusa il 6 maggio 2019, al termine della requisitoria aveva chiesto, in riforma della sentenza di primo grado la condanna a 9 anni di reclusione per Calogero Mannino (la stessa chiesta dai pubblici ministeri in primo grado). Per i giudici di Palermo risulta "indimostrato che Mannino abbia operato pressioni per la revoca del regime del carcere duro, secondo la tesi accusatoria che lo vuole come input, garante, e veicolatore alle autorità statali della minaccia contenuta nella trattativa". Un masso ulteriore sulla tesi della trattativa che vacilla sempre piu', mentre è in corso il processo principale in appello.
E' "pacifico", piuttosto, come avevano scritto dai giudici di secondo grado di Palermo, che la reazione violenta decisa da Totò Riina, all'azione posta progressivamente in essere dallo Stato contro Cosa nostra mediante la legislazione antimafia del 1991, "fu deliberata dal capo corleonese alla fine del 1991 e con evidenti finalità non ricattatorie, ma di vendetta reattiva: contro gli amici che avevano tradito (Lima), contro i magistrati che avevano contribuito alla lotta contro la mafia, nonchè contro altri soggetti istituzionali che si erano battuti contro Cosa nostra sul fronte politico, amministrativo, legislativo, tra cui non si può escludere – sostengono i giudici – alla luce di quanto prima esposto, che rientrasse anche il ministro Mannino".
Al tempo stesso, "non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch'egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno".
"Pacifiche e pubbliche", poi, "le minacce subite dal ministro Mannino – proseguiva la Corte – il suo timore e l'attivazione di tutte le forze di pubblica sicurezza e di intelligence dello Stato italiano a tutela della sua persona, ivi compreso il Ros e i servizi segreti, cui lo stesso ebbe pure a rivolgersi, cio' non di meno è rimasto parimenti indimostrato che tali contatti, per nulla occulti, fossero finalizzati all'avvio di una trattativa con Cosa nostra".
Insomma, "indimostrato il dato fattuale", la tesi della procura "con riguardo alla posizione del Mannino (in ordine all'input della trattativa ed allo specifico segmento della veicolazione da parte sua della minaccia allo Stato attraverso il Di Maggio) si appalesa non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti, con la quale non combacia da qualunque punto di vista la si voglia guardare".
Dunque, "neppure il contesto in cui la pubblica accusa ha inserito la condotta, indimostrata, del Mannino, si attaglia – concludevano i giudici palermitani – alla configurazione dell'illecito penale per come contestatogli, prestandosi, come ogni macro evento storico, a chiavi di lettura opinabili, certamente inidonee ad offrire interpretazioni inequivocabili che garantiscano quella certezza, al di la di ogni ragionevole dubbio, richiesta invece dal giudizio penale di responsabilità personale".
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