Questa – per una volta – è un’altra morte. La morte di una macchina, di un imponente veicolo da combattimento da terra, che quest’uomo sta osservando nel villaggio di Zdvyzhivka. Ne ha davanti agli occhi come un arto tagliato, ma non c’è sangue. Anche la tecnologia ha le sue incrinature, le sue ferite, le sue sconfitte. Non è invincibile. Forse quell’uomo sta pensando questo? Con quale stato d’animo? Con incredulità? Con sollievo? La morte di una macchina di morte.
L'immobilita della scena raggela la verità devastante del movimento, la sospende. Come accade ai luoghi stravolti da quel movimento distruttivo: "All'improvviso – scrive l’autore ucraino Serhij Zadan nel romanzo 'La strada del Donbas' –
capiti in un posto dove tutto scompare – le città, la popolazione, le infrastrutture. E persino i nemici scompaiono chissà dove, in quella situazione ti avrebbero persino fatto piacere, e invece sono scomparsi, e più ti inoltri verso est, più ti senti inquieto".
Ti rendi conto di cosa vuol dire una guerra di carri armati? È una domanda semplice e spaventosa. "Alla fine qui, – Ernst fece un ampio gesto col braccio intorno a sé –
ti prende la paura, perché qui, oltre le ultime palizzate, trecento metri appena al di là della strada ferrata, finisce quello che tu ti immaginavi della guerra, e dell'Europa, e del paesaggio come tale, comincia il vuoto senza fine, il vero vuoto totale in cui non c'è neppure una cosa a cui aggrapparsi…
Ecco cos'è la guerra dei carri armati, Herman".
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