Ieri la Corte di Cassazione ha condannato per omicidio preterintenzionale i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Dovranno scontare dodici anni di carcere, un anno in meno rispetto alla sentenza d’appello. La Cassazione, inoltre, ha stabilito un nuovo processo di appello nei confronti di Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, in precedenza condannati, rispettivamente, a quattro anni e due anni e mezzo di carcere per aver mentito su ciò che è realmente accaduto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 nella caserma Casilina.
Giovedì prossimo, poi, è prevista la sentenza di primo grado a carico di otto carabinieri (tra i quali il generale Alessandro Casarsa), accusati di aver “depistato” le indagini della magistratura. Siamo, dunque, agli atti finali di una vicenda che, con la sentenza di ieri, ha trovato la sua definitiva soluzione. Dopo dodici anni e mezzo: e questo è un punto sul quale è necessario riflettere. Allo stesso tempo è utile tornare a uno dei momenti di svolta – il primo e principale – di questa lunga storia.
Al centro si trovano alcune fotografie. Sono quelle di un cadavere sul tavolo dell’obitorio. Riprendo qui una ricostruzione dei fatti, risalente ai primi mesi del 2011. Quel corpo, incredibilmente e disperatamente magro, prosciugato. La maschera di ematomi sul viso, dalle palpebre fino agli zigomi. Un occhio aperto, quasi fuori dall’orbita, uno completamente chiuso. Le strisce sulla schiena, le lesioni. Il livido nero sul coccige. Segni di bruciature sulla testa e sulle mani.
Nel pomeriggio del 27 ottobre del 2009, cinque giorni dopo il decesso, i familiari di Stefano Cucchi consegnano quelle foto a Valentina Calderone, Valentina Brinis e a me. Si trattava di immagini davvero crudeli, di intensa vividezza e di impatto brutale. Quelle foto non solo provavano inequivocabilmente che violenze c’erano state, ma ne tracciavano in qualche modo la dinamica, ne scandivano la successione e disegnavano una sorta di anatomia degli abusi patiti. Eravamo turbati e perplessi. Le immagini avrebbero potuto mettere in moto un meccanismo emotivo destinato a suscitare più pietà che consapevolezza e più compassione che ragionamento.
Non solo: ricorrere a una dinamica emotiva quando la questione affonda in dimensioni giuridiche e politiche avrebbe rischiato di spostare l’attenzione su una dimensione impropria e avrebbe potuto prestarsi a speculazioni di segno opposto.
Avvertivamo, inoltre, un’ulteriore preoccupazione: si penetrava, con tutta la prevedibile forza dell’interesse mediatico, nella sfera più intima della personalità, laddove il corpo inerme è il corpo senza vita. E là, quel corpo, acquisisce una dimensione che non è enfatico definire sacra perché rimanda all’origine stessa della sua identità, che è un’identità caduca. Il corpo morto è così sacro, sempre e comunque, che qualunque offesa subisca è definibile, presso tutte le culture, come appunto sacrilegio. Sarebbe stato meglio, di conseguenza, preservare quelle immagini dall’offesa di sguardi forse morbosi?
Parlammo con Ilaria, la sorella di Stefano, la mattina del 28 ottobre, dicendole che ritenevamo sbagliato anche solo comunicare la nostra opinione e che avremmo aspettato la loro decisione e a quella ci saremmo attenuti. Passarono circa tre ore e mezzo e Ilaria, nonostante non avesse ancora preso visione di quelle immagini, aveva deciso, insieme alla famiglia, per la loro diffusione il giorno successivo. Quindi, nel corso della conferenza stampa di giovedì 29 ottobre, organizzata da "A Buon Diritto Onlus", distribuimmo una cartella contenente alcune fotografie, autorizzandone la pubblicazione. Si registrò subito un notevole mutamento nell’opinione pubblica e, così, iniziò il percorso che ha portato, infine, alla sentenza di ieri.
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