Eravamo lui, o forse lui era un po' noi. Il signor Rossi, ma anche quell'eterno ragazzino. Si poteva sognare di essere Paolo Rossi, anzi Paolorossi, non di essere Maradona, Zico, Platini, Falcao. Perché nei sogni di quell'epoca era previsto un certo pudore: puoi sognare di avvicinarti a dio, non di esserlo.
Il cognome più comune d'Italia: Rossi. Lo è ancora, anche in questo maledetto 2020, e 20 era il numero di maglia di Paolorossi, la maglia che lui più amava, azzurra, scollata, la cifra cubitale sulla schiena e quel tono di colore intenso, l'azzurro Savoia classico. Le braccia sollevate di Paolo con i pugni chiusi. Ride, e noi con lui.
In quell'anno ammazzano il generale Dalla Chiesa e scoprono la prigione di Moro. Il terrorismo è ancora una lunga coda di sangue nelle vite di tanti e nelle paure di tutti. Vivere a Torino, la città in cui Paolo vincerà molto con la Juve, significava un gambizzato al giorno. Nel 1982 delle 500 lire bicolori va un po' meglio, ma c'è bisogno di vita nuova. Sarà così, vedrete, anche dopo il Covid. Avremo bisogno quel giorno di un Paolorossi, chissà se c'è.
Paolo Rossi e la sua biografia: "Ho fatto piangere il Brasile"
di
Maurizio Crosetti
Il mundial
Lo scriveremo per sempre così, con lo spagnolo come lingua madre del cuore. Il nostro Mundial, anche se quell'idioma era cominciato quattro anni prima a Baires con una squadra giovane e magnifica, laggiù in terra d'italiani d'Argentina ("Ma ci sentite, da lì?"), la terra che ha appena perso Maradona: Dieguito e Pablito ci palleggiano in testa. Ecco, Paolorossi era nato in Argentina ma si è fatto uomo per noi in Spagna.
Lo sapete perché la Nazionale fece il silenzio stampa? Non per le critiche al pallidissimo gioco nella prima fase (Paolo vagava bianco come un lenzuolo, mancavano solo i buchi per gli occhi), ma perché qualcuno aveva scritto che Rossi e Cabrini si sollazzavano insieme, compagni di camera. Pensate dunque a quell'Italia, al pregiudizio contro gli omosessuali, e nulla conta che Rossi e Cabrini non lo fossero. C'è un'epoca intera che si staglia in sottofondo, così remota, così presente.
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Si era fatto due anni di squalifica per le scommesse, per quella tombola a Vietri sul Mare. "Sono stato incauto, non colpevole" ripeterà sempre. Oggi sarebbero pochi mesi per omessa denuncia. E poi è stato tutto un risalire, un ritrovarsi. Paolo era abbastanza gracile, gli avevano tolto tre menischi su quattro e allora mica c'era l'artroscopia, il bisturi invadeva, si faceva strada tra tessuti e cartilagini, poi sulla carne restava uno sbrego da sarta lungo così. Paolorossi non era un fenomeno atletico e neppure tecnico, la sua "normalità" era possibile, aperta al desiderio di qualunque ragazzino che giocasse a pallone (incredibile: a quel tempo i ragazzini giocavano a pallone), però non inganni questa prospettiva. Perché Paolo aveva, di sovrannaturale, l'istinto medianico del gol, il senso da rabdomante dell'area piccola dove nulla gli sfuggiva, e dove invece lui sfuggiva a ogni avversario, a qualsiasi controllo.
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Paolorossi, la pipa sventolata da Pertini, il grugno scimmiesco da pugile del vecio Bearzot, l'urlo di Tardelli e le mani di Dino che alzano la Coppa tutta d'oro. Siamo stati quello, siamo stati così. E amiamo tantissimo quello che siamo stati, anche grazie a Paolo. "Se sono campione del mondo lo devo a lui, ai suoi gol" ha detto Fulvio Collovati in lacrime. Vale per tutti. Perché anche noi un giorno siamo stati quelli che hanno battuto il Brasile con Rossi e grazie a Rossi. Anche noi, un giorno, siamo stati Paolo Rossi. Non sarà un caso se l'Italia non c'è mai più riuscita. Il Brasile, il totem, l'essenza stessa del gioco del calcio: e l'ultima volta l'ha fatta piangere il nostro ragazzo. Quella lacrima adesso riga i nostri volti così cambiati, così identici in questo dolore senza tempo che però sorride dentro una strana, quasi dolce malinconia.
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