«Non vi è un eccesso di contagi nelle scuole italiane rispetto ad altre situazioni: i casi si sono diffusi nelle aule esattamente come in altri contesti sociali». Si è molto discusso su quanto abbia pesato la riapertura delle classi a metà settembre nell’innescare la seconda ondata. Ma ora uno studio condotto da Enrico Bucci, professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia, e da altri ricercatori riuniti nel Patto trasversale per la scienza, mostra come le aule non abbiano rappresentato la scintilla per i focolai autunnali. O comunque non più di altri posti di lavoro o di svago. «Ma non è una buona notizia», avverte il ricercatore. «Significa che la scuola non è stata difesa, non si è fatto abbastanza per metterla in sicurezza, tanto che in termini di contagio è diventata come tutti gli altri luoghi non protetti».
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Professor Bucci, in cosa consiste la vostra ricerca?
«Abbiamo riordinato tutti i dati disponibili sui contagi in Italia al 31 ottobre, comune per comune. E li abbiamo rielaborati andando a vedere come i casi positivi si sono distribuiti nella popolazione scolastica e in quella non scolastica».
Cosa avete trovato?
«Che l’incidenza è esattamente la stessa, dentro e fuori le scuole. Se su un grafico si mettono in ascisse i casi nella popolazione non scolastica e in ordinate i casi nella popolazione scolastica, le diverse regioni si collocano su una retta, la cui pendenza è proprio il rapporto tra il numero di chi va a scuola e chi no. Un andamento che conferma quanto detto: nella scuola ci si contagia esattamente come altrove».
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Ci sono però regioni che si allontanano dalla retta. Come mai?
«Possiamo fare delle ipotesi. La Campania per esempio ha avuto più contagi extrascolastici che scolastici, ed è comprensibile visto che quella Regione ha lasciato a casa gli studenti prima di tutte le altre. Il Lazio invece si discosta verso l’alto: in proporzione alla popolazione ci sono stati più casi tra gli studenti che nel resto della popolazione. Vuol dire che qualcosa non ha funzionato nelle sue scuole».
Avete anche realizzato un focus sulla provincia di Bergamo.
«Abbiamo seguito l’evoluzione della pandemia per 12 settimane consecutive: per tutto questo periodo anche a Bergamo la diffusione del virus è stata identica tra la popolazione scolastica e quella non scolastica».
Esclude quindi che la seconda ondata sia stata innescata dalla riapertura delle scuole?
«Sì. I dati dimostrano che la crescita esponenziale ha preso il via ben prima della metà di settembre. Forse ha più a che fare con i nostri comportamenti estivi che con il ritorno in classe. Non siamo i soli a sostenerlo: nella letteratura scientifica internazionale, a fronte di 4 o 5 pubblicazioni che evidenziano un nesso causa-effetto tra scuole e focolai, ce ne sono decine che dimostrano l’esatto contrario. Come quello pubblicato sul New England Journal of Medicine che ha preso in considerazione i dati di Danimarca, Finlandia, Belgio, Taiwan e Singapore».
Ma tutto questo significa che è giusto riaprire le scuole?
«Le scuole non sono più a rischio di altri luoghi. Si possono riaprire adottando misure adeguate: il tracciamento, l’individuazione dei casi e il loro isolamento. Se però la circolazione virale torna alta, al di sopra di una certa soglia, allora cresce il pericolo di infettarsi a scuola, così come in qualsiasi altro contesto sociale».
Dunque non è stato un errore far iniziare la scuola a settembre?
«Il vero errore è stato intervenire tardi: con una fase esponenziale visibile nella seconda metà di agosto si sarebbero dovute prendere contromisure adeguate già il 15 settembre. Ormai lo sappiamo: ogni settimana di anticipo del lockdown, anche in forma leggera, permettere di farlo durare tre settimane in meno. E di salvare molte vite umane».
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