TORINO – Le care, vecchie icone mondiali si tolgono vent'anni di dosso in molti modi. Oriali sta comodo in una bella canzone di Ligabue. Tardelli mette tristezza nella pubblicità delle pillole contro la pancia. E Paolo Rossi detto Pablito, l'italiano per lunghi anni più famoso al mondo si è messo a raccontare una storia, la sua. Ne è uscito un libro che s'intitola "Ho fatto piangere il Brasile" (edizioni Limina), scritto con il giornalista Antonio Finco. Prima prova letteraria per il centravanti più rapido di ogni tempo: lui segnava in un milionesimo di secondo, invece per scrivere si è preso un po' di tempo.
Perché?
«Perché non volevo le solite memorie commerciali, oppure il libello con lo spunto polemico messo apposta perché se ne parli. Nessuno si aspetti scandali o rivelazioni clamorose. Si trattava di scrivere la storia della mia carriera, che è anche quella della mia vita, e per farlo servivano pazienza, memoria e voglia di verità. Ci abbiamo messo due anni e sono soddisfatto delle parole usate, mi sembrano giuste».
Anche lei aveva un messaggio da chiudere nella bottiglia?
«Forse sì. Di sicuro volevo che quella bottiglia la aprissero i giovani, i ragazzini. Spero che lo trovino istruttivo, mi sono rivolto soprattutto a loro».
Per dire cosa?
«Che uno qualsiasi, uno normale, può farcela. Non ero un fenomeno atletico, non ero neanche un fuoriclasse, ma ero uno che ha messo le sue qualità al servizio della volontà. Mi pare un buon messaggio, non solo nello sport».
Nel libro si parla molto delle scommesse, cioè il grande buio della sua carriera. Una scelta coraggiosa.
«Non ho scheletri nell' armadio. Mi sono fatto due anni di squalifica senza colpe, ma una morale della favola esiste: si può essere stritolati da qualcosa che ci cattura senza che noi abbiamo fatto nulla perché accadesse. Si può diventare vittime e non riuscire a dimostrarlo».
Il libro è anche un racconto di ombre: perché?
«Perché è sincero. Uno normale può riuscire, se lo vuole, ma non deve dimenticare che esistono i "se" e i "ma". Si deve mettere in conto il dolore, la delusione».
Il titolo parla del Brasile, di quel pomeriggio al Sarrià: il cuore della sua storia?
«Sì. Io sono il centravanti che fece tre gol ai brasiliani. Sono anche altre cose, ma essenzialmente quella. Mi rivedo con la maglia azzurra numero venti, e mi fa piacere perché la Nazionale unisce mentre le squadre di club dividono. A volte passano anni senza che mi arrivino telefonate speciali, ma quando mancano due mesi al Mondiale comincia a squillare il telefono. E tutti mi chiedono del Brasile, anche se è passata una vita».
Ma che vita è passata?
«Bella, senza nostalgia né rimpianti. Oggi mi occupo di edilizia, vivo sempre di corsa».
Come in campo, insomma.
«Ho detto di corsa, non veloce. Il calcio lo vedo quando posso e non mi diverte granché, almeno quello italiano. Troppo tatticismo. Per lo spettacolo, meglio guardarsi le Coppe internazionali. Barcellona-Real è il calcio che non morirà mai».
Il suo amico Platini sostiene che il calcio attuale non solo non diverte il pubblico, ma non diverte neppure se stesso.
«È vero, anche se si rischia sempre di passare per tromboni. Ma io, lo ripeto, sono fuori dal giro e parlo senza interessi. Questo è uno sport divorato dall' eccesso, non solo economico. Tutto è troppo».
Anche i soldi? Non siete un po' invidiosi, voi dell'altra generazione?
«Nel libro c'è un capitolo in cui racconto le battaglie con Boniperti per il rinnovo dei contratti. Una volta impiegai due mesi per avere dieci milioni d'aumento: ascoltati adesso, certi aneddoti non sembrano di vent'anni fa ma di cinquanta. Eppure io sono contento di essere stato Paolo Rossi nel 1982 e non nel 2002».
Dipende dal cosiddetto "aspetto umano"?
«Direi di sì. Allora i rapporti erano più semplici con tutti, c'era meno veleno, anche se poi potevi restare fregato com'è successo a me con le scommesse. Un'epoca senza paragoni, ed è per questo che ho preferito uscirne del tutto, senza voltarmi».
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