QUANDO ne parliamo usiamo inevitabilmente metafore belliche: c’è una guerra da combattere, c’è un nemico da annientare, ci sono armi, soldati e un territorio da difendere. Il nostro organismo diventa così un campo di battaglia, dove chi non è con noi è contro di noi. «In realtà, più che come un esercito, il sistema immunitario andrebbe descritto come una bilancia», racconta Angela Santoni, immunologa dell’Istituto Pasteur Italia e presidente della Società italiana di immunologia clinica e allergologica. Se i piatti sono in equilibrio, l’organismo è in grado di gestire nel migliore dei modi il rapporto con i patogeni con cui viene continuamente in contatto: funghi, batteri, virus, e ora lui, Sars-CoV 2. Se, invece, l’ago pende da una parte o dall’altra, il sistema rischia di andare in tilt. E questo, nell’incontro con il coronavirus, significa una cosa soltanto: malattia grave che può portare al decesso.
LE SFIDE DELLA STORIA
Di questa “bilancia” sappiamo molto, ma non tutto. Molte cose le abbiamo scoperte proprio grazie – se così si può dire – al coronavirus, che con la forza dell’emergenza ha trascinato l’umanità in territori ancora inesplorati, e verso fenomeni sui quali solo oggi stiamo cominciando a fare luce. E che certamente ci saranno utili in futuro. Non sappiamo esattamente quando l’umanità si sia accorta che soffrire di determinate malattie induceva poi una protezione successiva verso quelle stesse malattie. Gli antichi Egizi e i Babilonesi, per esempio, non avevano notato il fenomeno, così come del resto nemmeno il padre della medicina moderna Ippocrate. La prima testimonianza scritta del concetto di immunità viene per altro non da un medico, ma da uno storico: l’ateniese Tucidide (460-395 a.C.). Nella sua Guerra del Peloponneso narrò l’arrivo di una pestilenza partita forse dall’Etiopia e arrivata ad Atene: «Il male non aggrediva mai due volte: o, almeno, l’eventuale ricaduta non era letale», scriveva. Era l’osservazione di quella che più tardi verrà definita immunità adattativa, o acquisita: un sistema di difesa complesso e sofisticato, perché caratterizzato da specificità – le cellule specializzate che lo costituiscono, i linfociti T e i linfociti B, sono in grado di distinguere in modo raffinato diversi patogeni – e memoria, perché ricorda i nemici che ha già incontrato.
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Il percorso per arrivare a queste conoscenze è stato lungo e ricco di ostacoli, ma anche di premi Nobel. La strada che parte da Tucidide – spiega ancora Santoni – passa, parecchi secoli dopo, per Edward Jenner, il medico inglese che ha prodotto il vaccino contro il vaiolo grazie ai suoi esperimenti, diciamo così, empirici su familiari e ignari giovani dell’epoca. Fa tappa per Louis Pasteur, francese, e il rivale Robert Koch, microbiologo tedesco, in un periodo storico in cui Francia e Germania si confrontavano aspramente su ben altri terreni. E arriva ai due personaggi che più di altri hanno segnato la storia dell’immunologia moderna, Paul Ehrlich, il padre della risposta immunitaria mediata dagli anticorpi e Elie Metchnikoff, uno scienziato russo che, studiando all’Università di Messina le larve di stelle marine e il modo in cui queste reagiscono all’intrusione di un corpo estraneo (un ago di pino infilato nel corpo della larva, in questo caso), pone le basi per lo studio della fagocitosi. È questa un’arma dell’immunità innata, la prima linea di difesa contro le infezioni, affidata a un particolare tipo di globuli bianchi, i fagociti appunto (neutrofili e macrofagi), cellule in grado di inglobare e digerire i batteri e di riparare i danni subiti dai tessuti.
IL NOSTRO SISTEMA IMMUNITARIO
«L’immunità innata è stata a lungo considerata – spiega Santoni – un meccanismo di difesa un po’ rozzo e primitivo, così poco evoluto che la ritroviamo persino negli organismi unicellulari, come l’ameba, e nelle piante. Molto più affascinante per i ricercatori era lo studio dell’immunità adattativa, o acquisita, che invece compare dai vertebrati in su: quella osservata da Tucidide, e che protegge l’organismo dal secondo incontro con il patogeno. Così per anni l’immunità innata è stata trascurata». E, invece, è ancora in grado di riservare grandi sorprese. Che potrebbero rivelarsi utili proprio nell’ultima sfida che stiamo affrontando, quella contro Sars-CoV 2.
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«Quello che abbiamo scoperto negli ultimi anni – aggiunge, infatti, l’immunologa – è che anche le cellule dell’immunità innata sono in grado di riconoscere in maniera specifica un virus oppure un batterio, ma con modalità completamente diverse rispetto a quelle dei linfociti T e B. Per distinguere i patogeni, si servono di alcuni recettori in grado di individuare molecole prodotte da “famiglie allargate” di patogeni». Come l’endotossina, che non è specifica di un unico batterio ma è presente su tutti i batteri gram-negativi. Una volta che l’endotossina viene intercettata da un macrofago tramite il recettore, il macrofago si attiva e produce molecole infiammatorie. «Inoltre – aggiunge Santoni – oggi sappiamo che le cellule dell’immunità innata svolgono una doppia funzione. Non soltanto sono coinvolte nel pronto intervento, nella difesa immediata in attesa che arrivino i rinforzi, ma istruiscono i linfociti sul tipo di risposta che deve essere generata per eliminare il patogeno: ad esempio, la produzione di anticorpi per neutralizzare un virus o una tossina batterica, o la generazione di linfociti T citotossici per la distruzione di cellule infettate da un virus».
L’immunità innata ha anche altre frecce al suo arco: sono le cellule natural killer (Nk), in grado di uccidere cellule danneggiate. Oggi, grazie agli studi dello svedese Klas Karre, sappiamo che questa popolazione di linfociti ha un modo peculiare di distinguere le cellule da distruggere da quelle che vanno preservate. Le cellule natural killer, infatti, non riconoscono il patogeno, l’agente estraneo, ma piuttosto le cellule del nostro organismo che hanno subito un danno, si tratti ad esempio di una cellula tumorale, una infettata da un virus o una danneggiata dai raggi Uv. Si accorgono insomma che non è più la cellula di prima, ma che ha subìto uno stress. E si è modificata: è diventata una cellula dannosa e va eliminata. In questo senso, l’immunità innata è coinvolta nell’eliminazione delle cellule che non svolgono più il loro ruolo, come quelle troppo vecchie. Una funzione di pulizia.
L'IMMUNITA' APPRESA
Così, ora l’immunità innata si prende le sue rivincite, utili proprio oggi in tempo di pandemia. Chiave di volta di questo successo è il concetto di “immunità appresa” associato a monociti-macrofagi e cellule Nk, introdotto dal medico olandese di origine rumena Mihai Netea. Suona così: se una di queste cellule dell’immunità innata, per esempio un macrofago, viene per la prima volta in contatto con il bacillo di Calmette-Guerin, quello usato per la vaccinazione contro la tubercolosi, e poi con il fungo Candida albicans, il macrofago è già allenato, e in questo secondo incontro produrrà livelli maggiori di citochine, le sostanze che rappresentano il sistema di comunicazione dell’immunità. Una memoria innata, insomma, meno specifica ma altrettanto efficace. Nel caso di Sars-CoV 2, per esempio, si è osservato (ma andrà provato in studi prospettici controllati) che chi ha ricevuto la vaccinazione antitubercolare abbia una maggiore protezione immunitaria nei confronti della Covid-19.
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Immaginare il sistema immunitario come una bilancia significa, però, anche comprendere l’equilibrio dei due piatti. «La risposta immunitaria – conclude Santoni – mette in atto meccanismi di feedback negativo fondamentali, in grado di limitarla ed evitare reazioni esagerate, potenzialmente dannose. Nel senso che la risposta immunitaria deve essere attivata per difendere l’organismo, ma deve anche essere spenta quando il pericolo è cessato. Ad esempio, gli stessi macrofagi che nella fase iniziale producono citochine per arrestare l’infezione, devono poi produrre citochine inibitorie per fermare il processo infiammatorio. Se questo meccanismo inibitorio non funziona, la risposta immunitaria appare fuori controllo». È quello che accade in condizioni di Covid-19 grave. In un sistema immunitario già minato, per esempio da malattie pregresse, l’equilibrio salta: la risposta immunitaria all’infezione da Sars-CoV 2 non si arresta e si produce una vera e propria tempesta di citochine che, a livello polmonare, provoca più danni che benefici. E allora, l’unica soluzione è spegnere questa infiammazione sbilanciata e sfuggita al controllo ricorrendo a dei pompieri esterni: i farmaci antinfiammatori.
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