Il crepuscolo dei sogni, l'opera-film del regista Johannes Erath e di Omer Meir Wellber che ha inaugurato la stagione del Teatro Massimo di Palermo, sul web ha fatto numeri importanti. Le oltre 8mila visualizzazioni su Youtube si aggiungono alle più di 22mila di Facebook, con quasi 4mila interazioni, da Italia, Germania, Francia, USA, Spagna, UK, Ucraina, Polonia, Svizzera, Danimarca Austria, Germania, Grecia, Giappone e Irlanda.
Il progetto di teatro musicale compendia lo spirito impaziente, propositivo, coinvolgente e senza tabù di Wellber, direttore musicale del Massimo, che nel corso dell'angosciosa narrazione teatrale del Crepuscolo dei sogni suona (fisarmonica e pianoforte), canta, danza, recita. Oltre a dirigere da par suo dal podio. Con intenzioni musicali "forzate" dalle esigenze di sceneggiatura e caratteri della sofisticata antologia di arie, canzoni e brani strumentali che impegnano orchestra, coro e voci bianche del Massimo: "nessun artista né lavoratore del teatro è rimasto escluso", ha detto presentando la serata. Esperimento scaltro di teatro musicale, eccellente interazione di analogico e digitale melodrammatico – grazie anche alla precisa e vivace regia di Antonio Di Giovanni – Il crepuscolo dei sogni è la proposta più eccentrica e creativa dell'anno della "lirica" senza pubblico. Non sorprende che venga dall'incontro tra Wellber e Erath, giovani e non conformisti, innamorati dell'opera ma non del gusto operistico banale, internazionali per gusti musicali oltre che per professione e poliglottismo artistico. Né che venga da un teatro che a sorprendere, soprattutto nell'estro tecno-visivo, ci ha preso gusto.
Un teatro sotto la neve: il paesaggio dell'anima di Johannes Erath
di
Leonetta Bentivoglio
Crepuscolo dei sogni è prima di tutto un viaggio musicale. Una riflessione in forma di non-opera – quasi un video-clip, ma di 65 minuti – sulle suggestioni esplicite e segrete rapprese nella fraseologia artistica e sentimentale dell'opera (e del balletto). La dichiara all'inizio la modulazione lacerante che salda il Preludio del III atto di Traviata ansimato sulla fisarmonica alle note dell'ostinato discendente che scava nel lamento funebre di Didone o – nel finale – il ritorno alle origini del teatro musicale e alle ragioni degli 'affetti' melodrammatici racchiuse nell'avvinghiante duetto dell'Incoronazione di Poppea innestato sulla dissolvenza del coro cherubinesco dal Mefistofele di Boito. La scommessa del Crepuscolo è "aprire" a nuova funzione espressiva e drammatica il teatro, uno spazio fisico che non è vuoto anche quando il botteghino è chiuso, orfano di pubblico, perché evoca storie. E quando tace o non è ricreato come un set cinematografico (come in questo caso) è quinta scenografica vertiginosa. Ancor più se i palchi (tutti) sono occupati dai coristi o l'orchestra è disposta come su un monumentale trono-altare. La scrittura drammaturgica, la regia analogica e poi quella digitale del Crepuscolo dei sogni estraggono potenzialità espressive e recitative intense ai dotatissimi Carmen Giannattasio e Markus Werba, cantanti ma qui anche burattini smarriti e umani della "vita" melodrammaticamente attuale messa in scena; e del mefistofelico Alexandros Stavrakakis (sua, anzi di zar Boris, è la frase musicale più disperata). Decisiva è la complicità con la tecnologia usata come strumento attivo non solo come mezzo.
In Crepuscolo lo spettacolo "si fa" dal vivo, tra rimandi delle immagini sui vari schermi televisivi che sorgono dall'impiantito riflettente (la svuotata platea del teatro) e ricoperto di neve, mentre altri schermi "partecipano" all'azione (specchiando la Violetta tragicamente pierrottesca ad esempio) e gli operatori di ripresa opportunamente mimetizzati dialogano con i protagonisti. I "piani" cinematografici, rinforzati da inserti filmati, raccontano una storia di claustrofobia emotiva e fisica da cui si esce solo a tratti e con gesti violenti (l'esplosiva, "come un colpo di cannone", coreografia sul Die irae che modifica la lingua cinematografica o l'irruzione paraklezmer di Velkhes Meydl S'nemt A Bokher di Chava Alberstein, con Wellber in abito e voce da popstar) ma che trova consolazione e l'interpretazione giusta della realtà nella musica. E nell'intarsio a contrasto (come la luce che acceca il livido coro dei prigionieri di Fidelio che si frange sull'Amami Alfredo! e quindi si rianima di un colore diverso in Irgendwo auf der Welt di Heymann) dei 22 brani.
Non occorre cercare di "capire" o indagare la logica narrativa della sceneggiatura, per "vedere" che al cuore del Crepuscolo dei sogni di Erath (regista previsto per l'Evgenij Onegin di Cajkovskij, annunciata inaugurazione 2021) c'è la morte civile – iniquamente comminata oggi al teatro vivo. Ma la spettrale laica rappresentazione è evocata attraverso la natura affranta e raggelata di Erstarrung di Schubert e all'umore del Pierrot di Korgold. "Invano cerco nella neve le orme dei suoi passi" canta il Wanderer di oggi spazzando il pavimento; "ogni pensiero torna indietro nel tempo" canta il saltimbanco. L'accompagnamento pianistico di Schubert, "amplificato" dalla trascrizione orchestrale, potenzia dolore e solitudine; sembra preannunciare le devastanti ondate del finale di Tristan und Isolde (gran bella esecuzione, peraltro). Certo poi ogni giorno "si ridesta in ciel l'aurora", come cantano gli amici di Violetta, ma – assodato che il Crepuscolo anzi il Dämmerung dei sogni non possa essere arginato – l'unica speranza è nel teatro che vive. E in due voci che intrecciano, stellari e quasi sul nulla, Pur ti miro, pur ti godo, pur ti stringo, pur t'annodo.
Racconto senza paura di stordire e sconcertare, Il crepuscolo dei sogni funziona e dà da pensare per un po' (va rivisto, certo) perché dà corpo a molti incubi del nostro tempo ma indica nella riapertura dei luoghi in cui si fa musica e teatro non per "intrattenimento" ma per bisogno di bellezza e verità la via d'uscita. Quella che la protagonista prigioniera nella sala deserta e innevata cerca invano all'inizio del suo pellegrinaggio sul limitare dei sogni.
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