Si chiamava Benedetto T. Sottufficiale paracadutista, quando Badoglio proclamò l’armistizio con le forze alleate — l’8 settembre del 1943 — era a Firenze, in licenza di convalescenza: aiutava l’amante, Liliana, a mandare avanti l’azienda di famiglia, una lavanderia in via di Capodimondo. Ma non appena fiutò che il collaborazionismo con i tedeschi avrebbe potuto fruttargli lauti guadagni, scelse senza scrupoli la strada che più gli conveniva: arruolarsi nelle SS, denunciare ai tedeschi la presenza di famiglie ebree in città, riferirne gli indirizzi al capitano von Alberti applicando una logica fredda e marcissima. Ovvero: non partecipare alle operazioni di arresto, mettersi poi in contatto con i familiari in libertà degli ebrei reclusi fingendo protezione in cambio di denaro e gioielli, farsi riferire per vie subdole dove altri correligionari si erano rifugiati, comunicarlo ai tedeschi e osservare da lontano, con le tasche piene, la loro deportazione. Fu lui a far arrestare Massimo Lopes Pegna nei pressi degli Uffizi e, con la complicità di Bruno B., anche il padre Fernando, destinati prima al campo di transito di Fossoli, poi ad Auschwitz. Fu lui che, fingendosi infermiere, si infiltrò negli ospedali di San Salvi e Careggi a caccia di ebrei, per scoprirne i rifugi.
È una delle tante storie che ci mette in guardia sul vero significato della parola delatore, a lungo caduta in disuso, ma tornata in auge in epoca di pandemia a indicare chi, col sotterfugio, denuncia coloro che non rispettano le regole imposte dai decreti contro il contagio. La delazione vera è tragicamente differente. È un gesto che tocca il fondo del riprovevole, è il mors tua vita mea, è il trarre profitto dalla denuncia bastarda. A ridare alla parola il giusto valore, il nuovo saggio di Amedeo Osti Guerrazzi Gli specialisti dell’odio ( Giuntina), in cui lo storico romano — collaboratore della Fondazione Museo della Shoah — penetra nei meccanismi della connivenza tra nazismo e fascismo negli anni dell’occupazione tedesca, raccontando con il rigoroso supporto di documenti — molti inediti — la persecuzione degli ebrei italiani tra violenze, tradimenti, torture. Un capitolo, dove si raccontano le storie di Benedetto T. e di altri delatori ricavate dalle sentenze dei processi intentati ai criminali fascisti, è dedicato a Firenze, città della lotta partigiana e dell’accoglienza, ma anche di un fascismo particolarmente torbido e violento che nel nazismo trovò orribile giustificazione.
Con un triste primato: una specie di “ servizio smistamento delazioni”. «A Firenze — spiega Guerrazzi — fu istituito, unico in Italia, l’Ufficio affari ebraici, che lavorò a strettissimo contatto con i nazisti. Un vero e proprio centro di coordinamento di tutte le azioni che riguardavano il controllo e la vessazione della comunità ebraica. Operando braccio a braccio con la questura fascista e con le SS di via Bolognese ». Lo stesso personale dell’Ufficio — affidato al pregiudicato Giovanni Martelloni e ubicato prima nella Casa di Dante, poi in un appartamento requisito ad un avvocato ebreo, Bettino Errera, in via Cavour al 26 — apparteneva al lugubre miscuglio di « devianza criminale, capacità investigative, radicalismo ideologico proprio di tutte le bande che, radunando la schiuma della società, seminavano terrore; ma a Firenze ( dove agiva quella capeggiata da Mario Carità) si aggiunse il forte antisemitismo ereditato dal Centro studi sul problema ebraico, insieme a un fascismo particolarmente proletario e brutale che si rese colpevole di violenze anche dopo la Liberazione ». Le spiate arrivavano da gente prezzolata, sia da spie occasionali. Come Adriana Masi e Giuseppina Turchi, “fasciste ferventi” che fecero arrestare Lia Levi, nascosta nel loro stesso palazzo.
«La delazione è un tratto del regime sin dalle leggi fascistissime e, con la Repubblica Sociale, trova una chiave di volta, una sistematicizzazione — aggiunge Marta Paiardi, storica della Shoah fiorentina con studi decisivi sul tema citati da Osti Guerrazzi — a Firenze, fece delle bande un vero e proprio braccio armato della Prefettura. Fino all’8 settembre, nei confronti degli ebrei il fascismo era stato qualcosa di simile all’apartheid sudafricano. Non aveva assunto posizioni di sterminio. Poi, invece, scattò la persecuzione verso la soluzione finale».
Le pagine di questa storia grondano infamia e molte portano all’orrore e alle torture di Villa Triste. E non sono solo l’arresto e la deportazione di Don Leto Casini e il rabbino Nathan Cassuto causato da un infiltrato nel comitato clandestino di assistenza agli ebrei di Firenze. C’è pure la vicenda di Felice Ischio, raccontata anche da Osti Guerrazzi, « giovanotto senza qualità, avventuriero che diventò spia, torinese figlio di un sarto, responsabile dell’arresto e deportazione del rabbino capo di Firenze Nathan Cassuto, di sua moglie, Anna Di Gioacchino, e di molti altri del primo Comitato di aiuti ebraico- cristiano — ricorda Baiardi — il processo imbastito a Torino da Raffaele Cantoni, esponente significativo dell’ebraismo italiano, finì nel nulla, come quasi sempre accadde nel Dopoguerra, e non solo per i crimini contro gli ebrei».
La soffiata di Elena Pescucci, pigionante nella casa di via Ghibellina dove si era rifugiato la famiglia Orvieto, e della vicina Maria Lelli, portò all’arresto non solo degli stessi Orvieto, ma anche del rabbino capo di Modena Rodolfo Levi ( che si era nascosto a Firenze, sua città natale) insieme alla famiglia, in via del Gelsomino: oggi lo ricorda una pietra d’inciampo. E le tre sorelle Reggio, tradite da un loro dipendente che prima le nascose nella propria abitazione, dove si trasferirono da via delle Panche, per poi denunciarle ai carabinieri. Il terrore d’essere scoperto aveva vinto.
Commenti recenti