In un grato profumo di trucioli, Giuseppe Penone segue con un dito la vena del legno, è un'opera in via di finitura, un tronco rovesciato da cui emerge l'albero primigenio. C'è silenzio, nel capannone dove lavora questo maestro dell'Arte povera, neanche troppo distante da piazza Castello, il centro assoluto di Torino. Fuori c'è la pandemia, e dentro, lui lavora a un nuovo progetto. Tutto è molto chiaro: l'arte consola, nutre, ci fa sopravvivere. Anche la natura. E "nell'uomo c'è un bisogno di fondo di avere un rapporto con la natura, ma la città ha un po' cancellato il rapporto con la natura, riducendo il concetto di natura alle relazioni con le altre persone".
Intanto, si sale verso lo studio. Un albero nudo svetta nella tromba della scala, rinato da un trave di larice americano che conserva la base squadrata, anello dopo anello è riaffiorata la pianta giovane di un tempo, un lavoro fatto con grande rispetto "cercando di trovare all'interno della materia la forma e la ragione stessa dell'opera. Penone pensa che "è necessario un rispetto delle vite che ci circondano. Non solo la vita animale, ma quella vegetale, e la minerale. Il concetto di vita si sta allargando anche al minerale, è il concetto del cosmo come corpo vivente", un'idea enorme che lui spiega raccontando di un fabbro che ha conosciuto anni fa, "era un forgiatore, trasaliva quando sentiva il colpo e diceva 'il ferro va trattato dolcemente, bisogna seguirlo'. Perché l'azione del fabbro sul ferro non deve essere violenta e lui cercava di sfruttarne al meglio le caratteristiche".
Tutto questo c'entra molto con l'arte, "il pensiero di seguire la materia, anziché forzarla, conduce a una visione di logica e sintesi nell'esperienza dell'artista", con il rapporto tra artista e materia, e forse non c'è altro artista contemporaneo che abbia tanto amato la materia prima, che per lui è il legno. Cita "The Book of Tea" di Okakura, la sua preoccupazione di spiegare "la mentalità giapponese rispetto al problema dell'arte", e "c'è un episodio che ci avvicina a questa idea. La storia di un mago che prende un pezzo di legno da un albero di Paulownia e ne fa un'arpa. Esegue delle musiche straordinarie per il signore della città, glielo dona, se ne va. Nessun altro però riesce a suonare lo strumento, finché arriva il più bravo maestro d'arpa del paese, che accarezzando l'arpa con suoni e parole racconta la vita dell'albero, le tempeste, la luce, la sua esperienza di vita". Il racconto avviene mentre si è seduti alle estremità di un tavolo lungo 3 metri, e spesso 20 centimetri, una larga fetta di legno che arriva dalla foresta di Versailles, "una grande tempesta nel 1999 aveva abbattuto due cedri secolari, li hanno messi all'asta, li ho comperati. Con uno ho fatto questo, l'altro l'ho scavato rivelando la forma che l'albero aveva nel 1820", c'è una foto di lui nella cavità, quasi ci scompare dentro.
Un'altra tempesta lo ha impressionato. Vaia, milioni di piante abbattute sulle Dolomiti, "una strage, una carneficina. Lì si è avuta davvero l'immagine di tanti cadaveri. Però, il profumo dei cadaveri degli alberi ci circonda e ci piace, a noi piace quel profumo, le boiserie, gli oggetti di legno, il profumo della resina. Usiamo il suo corpo per la nostra necessità". E però "è stato un evento naturale che apparentemente non è dipeso dall'uomo ma è una conseguenza delle sue azioni degli ultimi 200 anni". Se Vaia sia la conseguenza del cambiamento climatico, "che pure è innegabile, è possibile, ma non c'è stata la volontà di deforestazione come in Brasile e in altre aree". L'uomo poi "è natura, e se distrugge la natura che gli garantisce la sopravvivenza, distrugge sé stesso. Ma la natura esiste comunque", o sopravvive.
Penone non si dice ecologista, "fin dagli inizi, nei Sessanta e Settanta, ho sempre evitato l'associazione. Per chiarezza. La mia non era un'operazione ideologica, ma di fascinazione artistica. Era ed è una vicinanza alla natura, e soprattutto agli alberi, legata all'osservazione, attraverso il linguaggio della scultura". E l'albero è "una scultura straordinaria", da solo, "perché ogni sua cellula memorizza il vissuto nella sua forma. Infatti non esiste un albero brutto, anche il più contorto. La logica che ha governato la sua vita diventa l'estetica della sua forma". Dopodiché, predilige le piante resinose, pini abeti e larici, "i loro rami a palco, mi permettono di mettere in evidenza la loro forma, che è chiara, e la successione dei rami sintetizza meglio di altre essenze l'idea di albero". Di intelligenza, anche, "l'intelligenza dell'albero risiede nelle radici, nel sottosuolo, sotto i nostri piedi e spesse volte la calpestiamo", poi ci sono le tempeste, poi tutto ricomincia.
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