Era suo padre. E adesso lui ha fatto pace col suo ricordo, dopo avere attraversato il deserto dell’assenza, delle menzogne, della diffamazione sparsa a piene mani per coprire la verità. Lui si chiama Giuseppe Maranzano ed è il figlio di Roberto Maranzano che era un giovane uomo nel 1988 quando entrò a San Patrignano per provare a disintossicarsi dall’eroina. Roberto, da San Patrignano ne uscì un anno dopo. Cadavere. Ucciso dopo un pestaggio in quello che era considerato un reparto punitivo della comunità di recupero governata come uno stato autonomo da quel controverso personaggio che era Vincenzo Muccioli.
Palermo, parla il figlio di Maranzano: "Mio padre ucciso a San Patrignano. Lotto per la verità"
Roberto Maranzano, quando morì, aveva 36 anni ed era una delle tante vittime dell’altra guerra che si combattè a Palermo durante gli anni Ottanta. C’era la guerra fatta coi kalashnikov nella quale cadevano magistrati, poliziotti, politici, e c’era l’altra guerra che la mafia combatteva con la polvere bianca, l’eroina che aveva cominciato a raffinare in casa (nel 1982 una indagine sul campo condotta dalle ricercatrici Maria Festi e Clelia De Luca, pubblicata dalla Lega siciliana per le autonomie svelava come Cosa nostra avesse fatto una vera e propria operazione di dumping commerciale ritirando dal mercato l’hascisc e immettendovi a prezzi bassissimi l’eroina). E in quest’altra guerra morivano i ragazzi. I “tossici”. Roberto era uno di loro, anche se non era uno di quelli che vagavano come zombie per le strade insanguinate della città di piombo. No, Roberto aveva un lavoro- faceva l’agente di commercio- una moglie dalla quale si era separato e due figli. La sua morte nella comunità di recupero, le rivelazioni sul suo assassinio, i processi che ne seguirono hanno portato a galla la dark side di San Patrignano, quella mirabilmente raccontata nell’ottima serie “Sanpa” in onda su Netflix che si è portata appresso un codazzo di polemiche.
Quel giorno del 1989 Giuseppe Maranzano, che oggi ha 41 anni e lavora come barman in alcuni locali di Palermo, se lo ricorda bene. Perché è il giorno in cui cominciò a fare i conti con la memoria di suo padre. «Avevo 9 anni, io e mia sorella sapevamo che papà era andato fuori per curarsi. Quel giorno mia madre ci chiamò nella sua stanza e appena chiuse la porta e ci guardò con quegli occhi io e mia sorella capimmo».
Si è costretti a crescere in fretta certe volte. Soprattutto quando ti dicono che il corpo di tuo padre è stato trovato a Terzigno, vicino Napoli, e che, probabilmente, tuo padre è morto per una lite durante uno scambio di droga. E così, nella tua memoria, tuo padre, l’uomo che ricordavi «comunque allegro, sorridente, positivo, assomigliava a me come sono adesso», viene inserito con violenza nella casella del tossico irredimibile. «Mio padre era descritto come un delinquente, morto in uno scontro tra delinquenti. Io non ci credevo fino in fondo. Però, che devi fare, te l’accolli…». Già, te l’accolli. E ti accolli anche di ricorrere a una bugia quando i tuoi compagni di scuola ti chiedono come è morto tuo padre. «Dicevo che papà era morto in un incidente stradale».
Alla sorella di Giuseppe, va anche peggio, perché un giorno, sul banco, i compagni di classe le fanno trovare un ritaglio di giornale nel quale si racconta la storia della morte del papà. Del “tossico”.
Nel 1993, però, nel libro doloroso della memoria di Giuseppe si apre una pagina nuova. Uno degli ex ospiti di San Patrignano parla con i magistrati, racconta della macelleria, il reparto punitivo, dice che suo padre, Roberto Maranzano, è morto in seguito a un pestaggio, che della sua morte sono responsabili Alfio Russo, Salvatore Persico e Giuseppe Lupo. Che il corpo del giovane palermitano venne trasportato fino a Napoli per mettere in piedi la messinscena utile a coprire le responsabilità degli assassini e quelle del fondatore di San Patrignano, Vincenzo Muccioli. A quel tempo, Giuseppe frequenta il liceo scientifico Cannzzaro, è un ragazzo ma è già in grado di comprendere come la battaglia per la verità che sua zia, la sorella del padre, porta avanti, rimbalzi, giorno dopo giorno, contro un muro di gomma. «Molta gente si manifestava, telefonava a mia zia promettendo rivelazioni e aiuto. Poi, si tirava indietro. Ricordo che una volta mia zia fu invitata a partecipare a una trasmissione tv in una rete nazionale, andò a Roma ma quando arrivò lì le dissero che non avrebbe più partecipato».
Adesso, sono tutti morti. Sono morti Alfio Russo e Giuseppe Lupo, che furono condannati («ma che in pratica non hanno fatto neppure un giorno di carcere»). È morto Vincenzo Muccioli, prima che i giudici potessero decidere se davvero era colpevole di omicidio colposo, se non solo aveva coperto gli assassini di Roberto Maranzano (come lui stesso ammise), ma se il “sistema” con il quale governava la comunità di recupero fosse costruito anche su modi e organizzazioni gerarchiche che favorivano pestaggi, che prevedevano catene e privazione della dignità, che ricordavano perfino i metodi che quaggiù, nella città di piombo dove Roberto Maranzano aveva cominciato a morire e dove suo figlio stava combattendo per la sua memoria, usavano i mafiosi (uno degli ex collaboratori di Muccioli ha raccontato che il fondatore di San Patrignano gli ordinò di dar fuoco a una villa per vendetta nei confronti dei genitori di un tossicodipendente).
Adesso, sono tutti morti, ma Giuseppe ha salvato la memoria di suo padre della quale cominciò a occuparsi quando nel mondo comparve internet. Cominciò a cercare in rete tutto quello che riguardava suo padre, i processi, San Patrignano. «Non provavo rabbia, non la provo neanche adesso. È piuttosto la voglia di colmare un vuoto».
Giuseppe leggeva dei pestaggi, dei reparti punitivi e qualche sindaco dedicava strade o busti di marmo a Muccioli. Giuseppe scriveva alla Rai per chiedere di riportare a galla la memoria di suo padre e le sue lettere restavano senza risposta. Giuseppe su Vincenzo Muccioli dubbi non ne ha. «È ovvio credere che il mio giudizio sia condizionato. Ma per me non c’è nessun dubbio sulla figura di Muccioli e sui metodi che usava. Puoi chiudere un tossicodipendente in una stanza, questo sì. Ma non puoi privarlo della sua dignità di uomo. Non puoi incatenarlo, chiuderlo in un tino, pestarlo a sangue. Mi sarebbe piaciuto che Muccioli fosse rimasto in vita per vederlo giudicato, per avere giustizia». Perché con la memoria di suo padre Giuseppe ha fatto pace e adesso se la porta felicemente accanto. Ma con la giustizia ancora no.
Commenti recenti