MILANO – Il controllo a distanza dei lavoratori è uno degli effetti collaterali, quasi mai graditi, di questo 2020 funestato dalla pandemia del Covid-19 e dai blocchi di attività che hanno accelerato in tutto il mondo il lavoro a distanza e la sua digitalizzazione. Un modo, per le aziende, di affrontare con più efficienza il lavoro a distanza, affinandone i processi, gli interventi di tipo tecnico e la sua produttività. Ma per chi lavora tutto questo può risolversi in una crescente violazione della privacy, e nell'invasione della sfera privata: specie se non vengono rispettate le norme o procedure in essere, o se queste si rivelano troppo permissive. La geolocalizzazione dei dipendenti è ormai una realtà, dalla quale sarà difficile arretrare.
Lo studio Toffoletto De Luca Tamajo, che da quasi un secolo si occupa di diritto del lavoro, ha analizzato in un'indagine le normative di 34 Stati sul tema, scattando una fotografia variegata e interessante: che, è bene ricordarlo, riguarda "la disciplina ordinaria dei singoli Paesi e non tiene conto delle discipline speciali connesse all'emergenza da Covid-19", che ovunque sta favorendo norme e prassi più permissive.
Ecco dove il controllo a distanza è "facile"
In circa il 15% dei Paesi esaminati la geolocalizzazione del lavoratore è possibile con la semplice informativa ai dipendenti. Sono i Paesi in cui il controllo a distanza è definito dagli esperti "facile": Argentina, Brasile, Canada, Cile, Regno Unito. Nei primi due Stati sudamericani, addirittura, non serve nemmeno fornire un'informativa ai dipendenti, che è invece un tratto comune a tutti gli altri Paesi coinvolti nella ricerca.
In Italia è difficile entrare nella privacy dei lavoratori
La fascia intermedia, dove la geolocalizzazione è di difficoltà "media", è più numerosa: ne fanno parte molti Stati a stelle e strisce come Washington, New York, New Jersey, Texas, Florida, California, oltre a Ungheria, Giappone, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Portogallo. In questi luoghi, in aggiunta all'informativa, nella maggior parte dei casi le norme prescrivono "una precisa policy aziendale sull'utilizzo e la conservazione dei dati, e il consenso esplicito del lavoratore", riporta una nota dello studio legale.
Nella metà dei Paesi analizzati dal campione (17), tuttavia, è considerato più "difficile" applicare il monitoraggio del lavoratore attraverso la tecnologia Gps, e tra questi c'è anche l'Italia, insieme a Belgio, Cina, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Israele, Lussemburgo, Paesi Bassi, Perù, Polonia, Repubblica Ceca, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera. In questi Stati, oltre all'informativa e alle policy aziendali, per poter attuare il controllo serve sempre anche il consenso del lavoratore, "e/o il raggiungimento di un accordo sindacale o di un'autorizzazione pubblica". Un caso, isolato, di particolare restrizione è l'Australia, dove in alcune aree vanno apposti avvisi permanenti sui dispositivi (ad esempio gli adesivi sui cellulari) per avvisare chi è geolocalizzato.
Nel 90% dei casi analizzati (praticamente ovunque, fuorché in Grecia), i dati derivanti dalla geologalizzazione sono utilizzabili dalle aziende per adottare azioni disciplinari, in un quarto dei Paesi è obbligatoria la disconnessione fuori dall'orario di lavoro. In tutti i Paesi ci sono invece sanzioni per le aziende che fanno uso illecito dei dati o violano le norme sul loro trattamento, com'è il caso della direttiva europea Gdpr, vigente anche in Italia.
Quanto alle sanzioni, sono variabili in base alla gravità dell'illecito: le più comuni sono di tipo amministrativo, in nove Paesi su 10. "Poter utilizzare i dati raccolti con la geolocalizzazione consente al datore di lavoro di rendere più efficienti i processi di vendita o le attività di intervento tecnico svolte sul territorio – dice Ornella Patané, partner di Toffoletto De Luca Tamajo – nonché misurare in tali ipotesi la produttività dei dipendenti, a condizione che siano adottate le necessarie procedure o autorizzazioni previste".
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