Peccato che abbia ricevuto poca attenzione. Perché Ethos, serie turca creata da Berkun Oya e distribuita da Netflix, è un caso interessante di serie non usa e getta, ma usa e pensa. Il titolo originale è Bir Baskadir, che significa "è un altro/a", a ricordarci che il motore delle storie è sempre l'alterità. Qui è un coro di solitudini che abita Istanbul, non quella delle cartoline, ma quella dei quartieri moderni e delle periferie rurali, della borghesia laica e della gente semplice che si arrangia, fiuta la modernità ma si rifugia nella tradizione. Che per le donne è ubbidire e per gli uomini comandare.
In questo mosaico disegnato dai secoli un tassello va fuori posto. È Meryem, una giovane donna musulmana con hijab, preda di misteriosi svenimenti che la portano in ospedale nello studio della psichiatra Peri, svelata e laica. Come ai tempi delle isteriche freudiane, si affaccia l'inconscio di chi non sospetta di averlo: desideri, proibizioni e vincoli psichici che abitano Meryem. Ma anche Peri, fintamente algida nel suo distaccato controtransfert. Pochi gradi di separazione e vengono a galla le tante anime turche, le loro culture e le loro storie, gli abusi della società arcaica e i traumi di quella moderna. Personaggi che, dopo qualche perplessa ostilità, generano in noi forme sottili di empatia, persino di familiarità, in un racconto senza pregiudizi che celebra la dignità di ciascuno.
Qualcuno ha paragonato Ethos a una terapia collettiva: forse per questo non ha lasciato indifferente il pubblico turco, al quale la serie è apertamente dedicata. Anche per questo, per arrivare a tutti, più ancora a tutte, Ethos affianca tentazioni soap a momenti di bel cinema alla Nuri Bilge Ceylan. Promuovendo così, senza edulcorare, una consapevolezza psicologica. PS: C'è anche un giovane innamorato che parla in continuazione di Jung.
Sul Venerdì del 24 dicembre 2020
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