LONDRA – Come un prestigiatore che all’ultimo istante tira fuori il coniglio dal cappello, Boris Johnson ha concluso con successo la sua mission impossible. A rendere quasi impossibile l’accordo sulla Brexit, bisogna dire, ha contribuito non poco lui stesso. Tutti i negoziati, certo, somigliano a una partita a poker in cui i due giocatori bleffano prima di scoprire le carte: ma i continui ultimatum, le minacce di “no deal” e la retorica populista del premier britannico hanno portato avanti la trattativa davvero fino al giro finale di carte, con il tempo che stava per scadere.
Quando le ha finalmente scoperte, alla resa dei conti, il leader conservatore si è dovuto rimangiato le facilonerie di cui ha cosparso il cammino della Brexit: dalla promessa nella campagna per il referendum del 2016 che uscire dall’Unione Europea sarebbe stato come avere “la botte piena e la moglie ubriaca” (have you cake and eat it, nella versione inglese del proverbio: alla lettera, mangiare la torta e averla ancora in tavola) a quella durante la campagna per le elezioni da lui trionfalmente vinte nel dicembre di un anno fa secondo cui c’era un “accordo pronto nel forno” da firmare con Bruxelles. Il danno economico per il Regno Unito, a dispetto dell’accordo di libero commercio annunciato stamane, sarà come minimo di 2 punti percentuali del pil, pari a decine di miliardi di sterline: perché il 60 per cento dell’economia nazionale dipende dai servizi, in particolare quelli finanziari, che non sono coperti dall’intesa. Altro che “botte piena e moglie ubriaca”. E il patto è rimasto “in forno” sino alla vigilia di Natale, prima di poter essere servito a un paese disperatamente bisognoso di buone notizie: Brexmas, come titolano oggi i tabloid, una Brexit per Christmas, quasi fuori tempo massimo poiché la fase di transizione scade il 31 dicembre.
Eppure, bisogna riconoscere che Johnson ce l’ha fatta: l’accordo commerciale con l’Unione Europea, insieme a un ampio corollario di intese scientifiche, culturali e di sicurezza, realizza l’obiettivo minimo dichiarato alla partenza, evita il “no deal”, il divorzio dalla Ue senza patti di alcun tipo che sostituiscano 45 anni di rapporti attraverso la Manica, e pone per così dire la prima pietra di un edificio che in futuro potrà crescere. Una consolazione per i tanti europeisti, sul continente e nelle isole britanniche, rattristati da un divorzio che, fra disagi reali e molte menzogne, ha sollevato per primo l'onda del populismo nel mondo: perlomeno potremo restare amici e in futuro si vedrà.
Non sarà del tutto “soft”, questa Brexit, ma non è nemmeno “hard” come temevano in molti. C’era ovviamente un interesse reciproco a mettersi d’accordo. Per questo i commentatori più esperti dubitavano delle Cassandre che per quattro anni e mezzo hanno pronosticato il “no deal”, dannoso per entrambe le parti, seppure più per Londra che per Bruxelles. Come che sia, la nave è andata in porto e il merito va condiviso da entrambi i contendenti: sebbene uno, la Ue, in particolare il suo capo negoziatore Michel Barnier, nei panni del coniuge paziente, gentile, determinato, che voleva una separazione il più civile possibile, mentre l’altro ha strepitato di continuo l’equivalente di “basta, me ne vado, peggio per te”.
Per di più, è la seconda volta che l’inquilino di Downing Street realizza un’impresa simile. Insediato da qualche mese, nell’autunno 2019 pochi scommettevano che sarebbe riuscito a concordare con la Ue l’accordo di “divorzio”, la Brexit vera e propria, dopo che la sua predecessora Theresa May aveva lungamente fallito. Invece Johnson ci riuscì, con concessioni in extremis, separando de facto l’Irlanda del Nord britannica dal resto della Gran Bretagna, per poi minacciare di rimangiarsi la concessione a cose fatte, un anno più tardi, e infine risolvere il guazzabuglio con altre concessioni nei giorni scorsi. Il contenzioso in materia probabilmente tornerà in superficie nei prossimi mesi o anni, ma per il momento il risultato è raggiunto.
La Brexmas di questo 24 dicembre è in un certo senso un deja vu di quella precedente intesa. Il bello degli accordi così complicati che occorrono due squadre di avvocati per mettere i puntini sulle i è che quasi nessuno, al di fuori dei super tecnici, capisce fino in fondo cosa è successo, cosicché ciascuno può rivoltare il documento come gli pare e sostenere che è stato l’altro a cedere di più. I tabloid e i siti nazionalisti inglesi, come Guido Fawkes, hanno già cominciato: stamane scrivono che la Ue ha mollato sulla sovranità britannica e che Londra ha vinto 40 a 17 per cento le questioni controverse, pareggiando il restante 43. Fantasie o meglio "spin", come si dice in gergo, ma la chiave di un negoziato riuscito è che tutti possano dire di averci guadagnato o addirittura di avere prevalso. In questo caso sarà facile capire chi tra i due ha veramente perso: colui che urla di più di avere vinto.
E allora, che voto dare in definitiva a Boris Johnson, a conclusione della vicenda? La sufficienza sicuramente se la merita. Ha ottenuto quello che gli serviva per riparare un anno di malgoverno, con un’ultima settimana terribile fra voli sospesi e ingorghi a Dover, e per provare a risollevare l’umore di un Paese messo in ginocchio dal Covid, con nuovi record di casi e di vittime proprio mentre infuria la “variante inglese” del virus e il lockdown si allarga a praticamente tutta la nazione.
L’uomo politico definito “un clown” dall’allora premier David Cameron, suo rivale nei Tories da quando erano entrambi studenti posh a Oxford, sembra un pazzo ma non è scemo. Ha davanti a sé una strada ancora impervia, la pandemia da domare, l’economia da salvare, un leader dell’opposizione finalmente serio e abile come il laburista Keir Starmer al posto del populista di sinistra Jeremy Corbyn e un rivale interno nel giovane ministro del tesoro Rishi Sunak che molti conservatori vorrebbero al suo posto.
Le elezioni del 2024 sono ancora lontane. Ma senza il consigliere “Rasputin” Dominic Cummings, licenziato il mese scorso, pare in una congiura di palazzo ordita da Carrie Symonds, first lady, sua fidanzata e madre del suo figlioletto; molto presto senza più il gemello americano Donald Trump alla Casa Bianca a spingerlo verso il populismo; e ora pure con la Brexit dietro le spalle, l’ex-sindaco di Londra ha una chance di rimettersi in gioco. E siccome a Natale siamo tutti più buoni, anche a lui si può augurare Merry Christmas. Anzi, Merry Brexmas. Se il dono che ha messo sotto l'albero degli inglesi contiene carbone o un bel giocattolo, lo deciderà la Storia.
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