Chiunque abbia pratica dei cavalli sa che la cura che richiedono non conosce deroghe, o pause. Se li si vuole mantenere in salute, non ci sono domeniche, feste comandate, in cui si possa trascurare d’accudirli. Allo stesso modo, chi cerca di stabilire con loro una comunicazione profonda sa che solo una lunga consuetudine può insegnarci a decifrare il mistero dei loro potenti istinti, a dominare i loro improvvisi timori, a guadagnare la loro fiducia e collaborazione. La via scelta dalla “gente di cavalli” è per questo, necessariamente, una via d’abnegazione che, se spinta alle sue conseguenze più radicali, ricorda una dedizione quasi sacerdotale. Non sorprende, quindi, che il prologo del nuovo spettacolo della compagnia del Teatro Equestre Zingaro, sia l’ironica predica di un prete dal forte accento irlandese che, dall’alto del suo pulpito, introduce il pubblico al rito che si sta per officiare e spiega il semplice criterio in base al quale sarà regolato l’accesso dei “fedeli” al “tempio”… pardon, degli spettatori al teatro.
Siamo al Fort d’Aubervilliers, periferia nord-orientale di Parigi. Qui, dal 1989, in una cittadella di legno disseminata di roulotte, vive la variopinta brigata di Zingaro, su cui regna con piglio di sommo sacerdote, di capotribù e di fondatore un geniale cavaliere-drammaturgo: Bartabas. È lui il coltissimo e ombroso inventore del teatro equestre moderno, l’artista che è stato capace di ideare una forma di spettacolo nuova e ricca di risonanze antiche, con al centro il culto del cavallo e che ha saputo far comprendere al pubblico contemporaneo le potenzialità espressive, la bellezza e la fraterna generosità di questi animali. In questo luogo fuori dal mondo, il pubblico viene accolto prima in una grande sala circolare, come una sorta di gigantesca yurta – la capanna dei nomadi centroasiatici – che funge da foyer, bar-ristorante e, con sapiente gusto scenografico, anche da museo dei vari spettacoli che si sono succeduti negli ormai oltre trent’anni di attività della compagnia. Da qui, a gruppi, gli spettatori raggiungono l’ingresso del teatro. In cima alla scala d’acceso, un altro prete e due camerieri/chierichetti smistano le persone in base ai settori dove dovranno sedere. A destra e a sinistra, due passerelle portano all’interno, passando sopra le scuderie, dove i cavalli riposano in attesa di entrare in scena. In realtà, lo spettacolo è già iniziato, perché quel momento di passaggio, quell’immersione nei profumi e nei rumori di una scuderia, sono già parte dell’emozione che il pubblico vivrà per tutta la durata della rappresentazione.
Dal 2021, Bartabas ha deciso di tornare alla formula del cabaret equestre, lo spettacolo che lo fece conoscere al mondo, alla metà degli anni Ottanta. All’epoca, il teatro di Aubervilliers non esisteva ancora. La compagnia si esibiva (come fa tuttora, quando è in tournée) sotto un tendone da circo. Il pubblico accedeva passando da un box, del quale era stata aperta solo la porta inferiore. Per entrare, il pubblico doveva inchinarsi e calpestare la lettiera. Era uno spettacolo barbarico e sofisticatissimo, che metteva insieme l’energia di una serata futurista e la poesia di un circo ottocentesco, zeppo di citazioni colte e di trovate esilaranti. La nuova versione del cabaret equestre è velata da una più spiccata malinconia. Non a caso, Bartabas, l’ha intitolata “Cabaret dell’esilio” e ha pensato di declinarla in un trittico, dedicato a diverse culture in esilio. Nel 2021 è partito dall’universo yiddish e dalla musica klezmer. Nel nuovo spettacolo – che ha debuttato nell’autunno scorso e proseguirà le sue repliche sino al prossimo 2 aprile – protagonisti sono i cosiddetti Irish travellers, popolazione nomade irlandese, che vive la propria condizione di popolo eternamente in viaggio come una forma d’esilio nel proprio stesso paese. Un popolo la cui identità è strettamente legata all’amore per i cavalli e a una singolare forma di cultura orale e di musica. Un popolo che, vivendo ai margini della società irlandese, è stato purtroppo oggetto di vere e proprie persecuzioni, in ragione della propria diversità.
Si coglie in questo richiamo all’esilio qualcosa di ben più profondo che un semplice interesse etnografico, o di una forma di solidarietà umanitaria. C’è un’affinità tra i popoli che, come i viaggiatori irlandesi, vivono ai margini della società, in base a regole e tradizioni loro proprie, e la tribù di Zingaro, la compagnia che chiede ai suoi attori di condividere non solo le luci della ribalta, ma un progetto di vita alternativo all’epoca meccanizzata e cibernetica nella quale viviamo. C’è una consonanza evidente tra l’isolamento di quei popoli e la solitudine del cavaliere-artista, che vive il suo dialogo personale con i propri cavalli come un’esperienza necessariamente solitaria, ma che non può fare a meno degli altri (che siano il pubblico, o i suoi collaboratori) per mantenere viva l’utopia che ha creato.
Lo spettacolo si apre con un funerale e con le note del canto di Thomas Mc Carthy, che intona le struggenti melodie del suo popolo. La malinconia è, però, solo l’altra faccia dell’intensità della vita e al lutto succede la gioia, al pianto la risata. Le scene si susseguono in un alternarsi di toni e di situazioni, nelle quali lo spettatore avvertito riconosce molte citazioni del primo Cabaret equestre e di altri spettacoli di Zingaro. Se a tratti questo può dare un’impressione di già visto, attenuando la meraviglia e smussando l’ironia, Bartabas non smentisce la sua vena creativa e la sua maestria nell’uso di tutti gli strumenti a disposizione di un grande uomo di teatro. Per esempio, trasformando un classico numero di corda area in un quadro perturbante. Grazie a un costume sapientemente concepito, l’acrobata viene trasformato in una creatura fantastica, metà demone, metà spirito della natura. Le sue evoluzioni aeree assumono così una potentissima forza evocativa.
Ai suoi esordi, Bartabas aveva incantato e divertito non solo grazie ai suoi cavalli perfettamente addestrati, ma anche trasformando in attori oche e tacchini. Non mancano nemmeno in questo spettacolo, anche se le protagoniste del momento più divertente e sorprendente sono questa volta delle… pecore. Nell’unico quadro in cui anche Bartabas entra in scena, col suo gigantesco purosangue morello, Tsar, a suscitare meraviglia e risate è soprattutto un piccolo gregge, perfettamente addestrato, dal quale il mefistofelico drammaturgo riesce a ricavare una metafora spassosissima. Non posso rivelare di più, per non rovinare l’effetto comico a coloro che vedranno lo spettacolo, ma aggiungo soltanto che quella scena vale da sola il biglietto e che Bartabas si conferma un artista geniale, oltre che un cavaliere strabiliante.
La cosa che più sorprende di questo spettacolo, come delle altre creazioni di Bartabas, è la sua capacità di armonizzare una complessa varietà di livelli di interpretazione, di riferimenti culturali e di citazione, in un linguaggio che parla a tutti: agli esperti di cavalli, come a chi li vede per la prima volta. Chi ama questi animali non può che essergli grato di tener viva la gioiosa utopia del suo teatro, della sua compagnia/tribù, di questo posto alla periferia di Parigi in cui si respira un’aria diversa da quella del nostro tempo. Un posto che ci racconta di chi resiste all’omologazione e si ostina a cercare un orizzonte più aperto e più libero.