Nell’importante libro “Letteratura d’evasione” (Il saggiatore 2022), curato da Federica Graziani e Ivan Talarico, che raccoglie racconti ed esperienze narrative vissute durante il corso di scrittura all’interno del carcere di Frosinone, si trova anche una sezione di “recensioni”. Ai detenuti è stato chiesto di descrivere le proprie “camere di pernottamento” (o celle) e, così, abbiamo una rassegna di particolarissima architettura di interni.
È un’idea molto interessante: innanzitutto perché, quello di “descrivere la propria stanza” è un genere letterario antico; e poi perché in quelle recensioni si rispecchia spesso l’immagine di sé e dei propri rapporti più intimi che la persona privata della libertà e coatta in uno spazio angusto vuole trasmettere all’esterno.
Da un punto di vista architettonico e sociologico assai utile sarebbe estendere quell’attività di descrizione e scrittura fino a concentrarla nel buco più profondo contenuto in quel buco che spesso è la cella. Ovvero il water.
In proposito, va letta una recente sentenza della Cassazione, che afferma come «la presenza del WC all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione» inciderebbe in profondità «sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente».
Si tratta di una sentenza importante a proposito di una questione rilevantissima per valutare lo stato del nostro sistema penitenziario e il livello di mortificazione della dignità umana cui può giungere. Secondo l’associazione Antigone non si tratta di una circostanza così rara se è vero, come è vero, che le celle che presentano quelle condizioni igieniche rappresentano almeno il 5% del totale. Non sarebbe intelligente partire da lì, proprio da lì, per avviare una riforma dell’edilizia carceraria e dell’intero sistema penitenziario? Non è possibile dignità dove non c’è dignità del corpo.
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