Erano “bianchissimi in faccia. E anche le loro mani, erano così bianche. Poi non stavano in piedi, immagino per la mancanza di zuccheri nel sangue. Sono scesi dalla macchina a fatica, e io ho pensato che erano veramente come gli zombie”. Così appaiono i sopravvissuti di Mariupol, a chi li aiuta a fuggire dai campi di detenzione russi. Basta un’occhiata, sono quelli che si trascinano e sono davvero esangui, denutriti, così senza colore. Sopravvissuti nella città bombardata, nelle cantine e nei rifugi, per salvarsi dalle bombe e dai rastrellamenti, ora hanno paura del buio, dei rumori violenti, di cosa altro potrebbe succedergli. Molti sono stati evacuati dai russi, portati nei campi del Donetsk prima, e dopo nei campi di “filtraggio” in Russia, dove vengono interrogati e controllati (i telefoni, gli eventuali tatuaggi nazionalistici, il rilievo delle impronte digitali).
Ma qualcuno riesce a fuggire, grazie a una rete di autisti, volontari (anche russi) e rifugiati ucraini, che parte dalla Repubblica della Georgia. Il gruppo Volunteers Tbilisi sta organizzando viaggi pericolosi – soprattutto nel tratto russo – per portare definitivamente in salvo queste persone. Da Taganrog, ad esempio, alcuni russi senza nome hanno portato i fuggitivi in macchina fino a Rostov, altri li hanno presi in carico e accompagnati in treno a Vladikavkaz, la capitale dell’Ossezia del Nord. Alla stazione, ecco l’autista georgiano, che gli fa attraversare il confine e li sistema in un primo rifugio nella parte sud del Paese, dove possono ricevere la prima assistenza, un letto, il cibo. E una concreta libertà.
dal nostro corrispondente
Paolo Mastrolilli
La notte del 31 marzo uno di questi trasporti ha trasferito a Akhaltsikhe una famiglia di 8 persone di Mariupol, in stato pietoso, così come le ha viste Masha Belkina, una ragazza di vent’anni che coordina le attività di Volunteers Tbilisi. Masha è russa di nascita, ma quattro anni fa la famiglia si è trasferita nella capitale della Georgia e ha aperto un piccolo albergo. Bisogna spiegare che i georgiani temono di fare la stessa fine degli ucraini, così come i polacchi, e molti uomini sono partiti volontari per combattere i russi a fianco dell’esercito ucraino. E giusto nei giorni del viaggio di questa famiglia di Mariupol verso la Georgia, due volontari tornavano in patria in una bara. Caduti sul campo, si chiamavano Gia Beriashvili e Davit Ratiani, uccisi durante un combattimento a Irpin. Il corpo del terzo caduto, Bakhava Chickbava, non è ancora stato rimpatriato. Si sa che è morto durante uno scontro a Mariupol. Ad accogliere le prime bare all’aeroporto, la presidentessa della Georgia, Salome Zourabichvili, tanto per spiegare l’importanza e il significato della presenza di questo Paese sulla scena del conflitto.
di
Paolo Brera
Ma tornando alla famiglia di Mariupol, erano otto e tutti malconci. Con due feriti seri, una donna di 52 anni ferita da schegge in tre punti del corpo, e una profonda altra ferita in una gamba, e il figlio , anche lui colpito da una scheggia alla scapola sinistra. Nel campo russo di Bezymennoye dove erano finiti, i medici avevano proposto un intervento chirurgico, ma lei aveva rifiutato, non fidandosi dei medici “nemici”. Sono stati poi operati in Georgia, e stanno meglio. Nel trasporto c’era anche una donna molto anziana, e un figlio, che si portava dietro un piccolo sgabello di legno. Masha gli ha detto che in macchina non ci stava, di lasciarlo lì. E lui prima ha detto che gli serviva per fare sedere sua madre, per non stancarla troppo. Poi ha confessato che era l’unica cosa che si era salvata dalla loro casa, “della nostra vita”.
a cura di
Flavio Bini e Paola Cipriani
Volunteers Tbilisi ha finora traghettato in Georgia 2mila ucraini. Da lì, se vogliono, vengono aiutati a raggiungere la Polonia, la Francia, la Germania. Molti restano, perché sperano di tornare presto alle loro case. Alena Dergachova, giornalista della testata indipendente online The Village (invisibile in Russia, perché oscurata) ha visitato questa famiglia e non è riuscita a parlare con loro perché “sono in uno stato psicologico molto grave”.
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