Il lessico di guerra è attivo anche in tempo di pace. Senza farci caso, parliamo o scriviamo usando parole come fronte, battaglia, esercito. Ci riferiamo ad altro, ma i termini sono gli stessi delle cronache dall’Ucraina. Il cortocircuito diventa più evidente se dico, con un’espressione convenzionale molto utilizzata nei media nel corso della pandemia, che un ospedale è una trincea. Lo si dice sia nella prospettiva di chi cura, sia in quella di chi è curato. E spesso assimiliamo il decorso di una malattia a una guerra. Ma è una metafora discutibile.
Davanti a questa fotografia che arriva dall’ospedale Ohmatdyt di Kiev, penso che le metafore qualche volta si polverizzano nel reale. E lo penso davanti a un’altra foto, che è difficile guardare e arriva dall’ospedale di Dnipro e ritrae una bambina ferita, sopravvissuta all'attacco missilistico alla stazione di Kramatorsk l'8 aprile scorso. La trincea e l’ospedale non entrano in una relazione simbolica, ma si sovrappongono, fino a coincidere. La giovane donna che cerca di distrarre la bambina ricoverata lo fa nella più difficile delle condizioni: quella in cui il "fuori" non consente ancora di sperare. Allora deve, con quel gesto lieve, con quell’alzare le braccia, supporre che la realtà non è solo quella che si vede – dentro l’ospedale e fuori dall’ospedale. Deve fidarsi dell’invisibile, ed è qualcosa che si impara solo dai bambini.
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