In un mondo che semina asterischi al posto delle desinenze, usa pronomi neutri e resuscita l’utopia delle cyborg femministe anni Settanta in fatto di specie miste, limitarsi oggi al puro e semplice sostantivo “donna” è ormai squisitamente vintage. E infatti Cecilia Alemani, curatrice della cinquantanovesima Biennale d’Arte di Venezia che parte il 23 aprile, arriccia il naso davanti alla definizione spontanea che finirà per etichettare la sua come la “Biennale delle donne”. «Sarebbe» dice «come minimizzare una mostra che racconta storie diverse attraverso una pluralità di voci». E fluidità di genere. Le teorie queer aleggiano in sottotraccia a una geografia fatta di soggetti nomadi, connessioni eterogenee fra modi alternativi di essere, LGBTQ+ e figure altre (o meglio, altr*…) rispetto al tradizionale sistema binario.
Così, mentre si discute costantemente di parità di diritti, retribuzione e carriera, il suo progetto astrae la questione della rappresentanza sociale in una dimensione aliena e visionaria, ripercorrendo una linea tesa che dal surrealismo del primo Novecento approda al surrealismo pop d’ultima generazione. Le donne sono, insomma, regine del surreale. Ma del reale ancora no. E, comunque la si giri, a Venezia avranno la meglio.
Su 213 nomi di 58 Paesi, fra storici e contemporanei, l’80 per cento sono femminili, compresi i due Leoni d’Oro alla carriera assegnati pari merito alla tedesca Katharina Fritsch e alla cilena Cecilia Vicuña. Il titolo stesso di questa edizione, Il latte dei sogni, cita un famoso libro di fiabe di un’altra surrealista sciamanica, la pittrice britannica Leonora Carrington (1917-2011), che Alemani ha scelto come musa di un affondo scivoloso nelle pieghe postumane del corpo e delle sue metamorfosi, fino alle ibridazioni sperimentate da biologia e biotecnologia.
di
Antonella Barina
Quando, nel 1980, Lea Vergine inaugurò al Palazzo Reale di Milano la leggendaria mostra L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, riportando alla luce centinaia di personalità straordinarie di donne rimaste ai margini della storia, sopraffatte dal sessismo dei loro compagni, pochi immaginavano che quella torta divisa in due spicchi sarebbe stata presto affettata in una miriade di porzioni. Comprese le evoluzioni simbio-genetiche del cosiddetto post-antropocentrismo. La lingua inciampa nei neologismi, ma il metodo dell’indagine in corso non è cambiato molto rispetto a quello della grande Lea: «Mettere a fuoco una prospettiva, la più corretta possibile», evitando il misero censimento, gli stereotipi, l’omologazione, alla scoperta di identità differenti.
Se, sullo sfondo di questo panorama liquido, parlare di un registro femminile dell’arte rischia di apparire démodé, è indubbio che, fra passato e presente, molte autrici abbiano abbracciato all’unisono un pensiero rivoluzionario, mettendo in discussione i ruoli e usando il proprio corpo come unità di misura, perimetro di un confine protetto e, insieme, luogo d’evasione. Le donne del futurismo, per esempio, dalla profetessa lussuriosa Valentine de Saint-Point a Benedetta Cappa, moglie geniale di Marinetti, dalla danzatrice aerea Giannina Censi alla scultrice dell’alluminio Regina Cassolo, anticiparono a livello politico e sociale le rivendicazioni riprese nel Sessantotto dai gruppi femministi più protervi. Le ragazze ribelli del surrealismo, come la messicana Bridget Bate Tichenor o la scultrice Tecla Tofano, con le sue creature totemiche rubate a un cerimoniale iniziatico, proiettarono in scene psichedeliche le fantasie dell’inconscio. Il sonno della ragione ha generato mostri che ancora braccano le membra delle donne.
Naturale, artificiale, robotico, avatar o postgender che sia, il corpo appartiene sempre e indiscutibilmente a loro. Partendo dai ritmi frenetici di Joséphine Baker, che scandalizzò Parigi coi suoi amori bisessuali e passò dalla danza tribale alle lotte per i diritti civili, si attraversa un secolo di storia fino alle anime meccaniche di Rebecca Horn dotate delle sue celebri protesi corporee per allungare freudianamente dita o polpacci. In mezzo scorrono le “capsule del tempo” costruite dalla curatrice per scandire epoche, linguaggi affini e altri innesti meticci fra letteratura, musica, cinema, scienza e via ibridando.
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In tutto ciò, il surrealismo resta la linfa che irrora ogni tappa e trascina il visitatore in un viaggio sensoriale davanti agli oggetti perturbanti di Meret Oppenheim, desideri soffici di una femme fatale spalmata di inchiostro, o di fronte ai pensieri selvaggi della viennese Birgit Jurgenssen, che graffiava una lavagnetta con le unghie per incidere «Ich bin», io sono, in un acuto urlo di affermazione. Schierate contro la società dei consumi, le opere di Mirella Bentivoglio inchiodano i cliché pop delle disperate housewives, eroine domestiche del benessere, alle responsabilità della cultura di massa. Come lei, Barbara Kruger – che in pieno Boom aveva trasformato gli slogan delle riviste patinate in un’arma d’accusa al sistema stesso della comunicazione mediatica – porta adesso negli spazi delle Corderie un intervento inedito che mescola foto e messaggi subliminali in un bombardamento ipnotico.
di
Natalia Aspesi
Fra giganti (ops, gigantesse!) dell’eros crudele, come Carol Rama, e nuove interpreti appena sdoganate dal sistema dell’arte come la giovane Giulia Cenci con le sue ambiguità “umanimali”, un po’ bestie e un po’ macchine, spiccano nomi da manuale che in Laguna non erano stranamente mai passati. Dadamaino o Nanda Vigo, esponenti dell’arte programmata, optical e cinetica, furono escluse anche dalla Biennale del 1966, dove esposero invece i colleghi uomini con cui lavoravano quotidianamente. Grande assente fu anche l’americana Nan Goldin, esploratrice di corpi feriti e rapporti tossici che, con la sua Ballad of Sexual Dependency, ha prodotto la fotografia più struggente di una generazione spezzata. Sogni surrealisti e utopie sociali, ecologia dell’anima e pensiero critico orizzontale si sovrappongono ai Giardini e all’Arsenale restituendo l’eterogeneità delle ricerche in un quadro armonico punteggiato di esperienze intime, viscerali, psicologiche, in un omaggio al passato utile alla comprensione del futuro; in tutte le sue fette fluide.
Per quanto, a conti fatti, la declinazione al femminile sia oggi riduttiva, occorre in ogni caso ricordare che, agli esordi della Biennale, la presenza delle artiste arrivò sempre arrancando al 10 per cento; in tempi più recenti si è giunti a un timido 30 per cento. Orfana di fanatismi o estremismi, la Biennale di quest’anno è un degno risarcimento alla reticenze della storia che, oltre a sedare l’eterno dualismo uomo/donna, somma, incrocia e persino contrappone la varietà di un mondo senza gerarchie, dove le donne partecipano alla grande bellezza di un enciclopedico affresco umano. Anzi, uman*.
Sul Venerdì del 18 marzo 2022
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