Gian Maria Tosatti, classe 1980, si è ritrovato nel giro di pochi giorni ad essere nominato protagonista unico del prossimo Padiglione Italia della Biennale di Venezia curato da Eugenio Viola, direttore artistico della Quadriennale di Roma del 2025 e unico artista italiano della programmazione delle mostre personali dell’Hangar Bicocca, dove esporrà nel 2023. Un bel record per questo artista – autore di installazioni corali in cui narra e analizza identità e storie radicali – che ha scatenato più di qualche polemica, soprattutto sui social, tra artisti e curatori che hanno gridato allo scandalo con un bel carico di «Perché tutto lui?».
Tosatti, perché?
«C’è stata una convergenza temporale di cose, senza dubbio, ma in questi ultimi anni ho fatto diverse cose molto grandi in giro per il mondo, chi non se n’è accorto è perché guarda sempre sotto l’uscio di casa. Tante volte si dice che l’arte deve aver uno sguardo internazionale e allora guardiamoci attorno! Biennale e Hangar sono riconoscimenti che arrivano nel mio Paese dopo che ne sono arrivati altri da fuori. A quelli che dicono che non sono contenti, non so cosa dire».
Da poco è uscito il suo ultimo libro, “Esperienza e realtà”. Le sue opere erano nello stand di Lia Rumma, galleria che rappresenta il suo lavoro, all’ultima edizione di Artissima, la fiera di Torino. Ma, soprattutto, ci sono i grandi progetti in agenda. Dove troverà il tempo per tutto questo?
«Da quando ero ragazzino sono abituato a lavorare su tavoli diversi. Fino ai 34 anni – quando ho iniziato a guadagnare come artista – ho fatto tantissimi lavori. Non vengo da una famiglia ricca e ho dovuto subito impegnarmi. La curiosità intellettuale non mi è mai mancata, quando lavoravo nel mondo del teatro ho anche scritto di teatro; stessa cosa nel mondo delle arti visive. Nel quarantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, mi chiesero una riflessione, scrissi che mi aveva difeso con il suo lavoro trasversale».
In passato, gli artisti avevano anche un approccio interventista, scrivevano e organizzavano, entrando in prima linea nel dibattito intellettuale. Su “Artribune” e altre riviste lei l’ha fatto spesso.
«Rivendico la grande tradizione dei grandi artisti italiani, è importante che gli artisti entrino nel dibattito. C’è oggi il desiderio di una riappropriazione del ruolo politico dell’arte, c’è bisogno di attivismo. L’arte in Italia vive una fase di nuovo neorealismo».
Porterà queste sue visioni nella direzione artistica della Quadriennale?
«Il mio impegno in Quadriennale riguarda l’ambito manageriale, che ho già portato avanti dirigendo riviste e progetti molto impegnativi. C’è un percorso di evoluzione che sta caratterizzando questa istituzione, sta cambiando il suo hardware, anche la sede. Io sono stato chiamato come una sorta di architetto della nuova infrastruttura metodologica. Non sono un curatore, non curerò quindi alcuna mostra».
Tre anni di lavoro in Quadriennale sono tanti. Il suo studio d’artista rimarrà vuoto?
«Finiti questi tre anni, tornerò a pieno regime a lavorare nel mio studio, questi prossimi anni saranno la conseguenza di un percorso di vita abbastanza complessa e stratificato. Ma non sono l’unico artista che si è impegnato in altri ambiti».
Vuol dire che la comunità dell’arte è malata?
«No, assolutamente. Ma vorrei essere giudicato sulle cose concrete, sui fatti. Poi è chiaro che mi auguro di non fare errori. Voglio trasformare la Quadriennale in quello che è la sua stessa mission: una realtà dello stato che si occupa di promozione e ricerca, voglio perciò creare uffici che si occupano di prospettive specifiche che riguardano l’arte. Sono vent’anni che non si fa una mappatura dell’arte italiana».
Chi sono gli artisti italiani da osservare con attenzione?
«Mi fa una domanda difficile nel mio ruolo attuale, ma posso dire che ultimamente ho visto due mostre molto belle di Eugenio Tibaldi, che è un artista che ha speso vent’anni nella peggiore provincia napoletana, lavorando su come la violenza stia determinando la costruzione del nuovo paesaggio. Poi sicuramente Giuseppe Stampone, che ha cercato di lavorare sull’immaginario; oggi si vedono i suoi lavori e si nota la perfetta formalizzazione, ma è un percorso che nasce sulla strada, sviluppato con le comunità. E poi ci sono altri nomi altrettanto fondamentali».
Quali?
«Francesco Arena, artista che ha riportato la politica al centro dell’arte italiana, Andrea Mastrovito e Micol Assaël e Roberto Cuoghi, che sono due colonne».
Torniamo a lei. Come sarà la sua mostra all’Hangar Bicocca?
«Un’antologica molto particolare, non sarà soltanto un insieme di vecchi lavori. Vicente Todolí, il direttore di Hangar, ha preso tanti aerei per vedere i miei lavori dappertutto in questi anni. È stato bello vedere anche il mio nome tra quelli degli artisti – grandi maestri – del nuovo programma dell’istituzione milanese. Ha stupito anche me vedere il nome di un artista italiano, siamo ormai disabituati».
Ma come mai? L’arte italiana non regge nel contesto internazionale?
«È un momento d’oro per l’arte italiana, ma gli artisti vanno sostenuti ancor di più dalle istituzioni».
Può anticiparci qualcosa del suo Padiglione Italia alla Biennale d’arte di Venezia di quest’anno?
«Quando Eugenio Viola mi ha invitato, mi ha anche detto che la Biennale post pandemica dovrà formulare uno statement sul futuro. Il mio progetto parlerà proprio di questo futuro, prossimo o remoto non lo so».
Se dovesse dare un consiglio a un giovanissimo che intende fare il suo mestiere da grande, cosa gli direbbe?
«Un solo consiglio: proteggere il proprio lavoro».
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