AGI – Quando Alberto Savinio mise mano al suo Capitan Ulisse era il 1924. Ci vollero dieci anni perché il volumetto dedicato alla rivisitazione dell'eroe omerico vedesse la stampa, con l'aggiunta d'una inopinata o nel titolo, e un altro po' d'anni perché il “dramma moderno in tre atti, con una giustificazione dell'autore”, come recita il frontespizio sulla prima edizione dei quaderni di Novissima, pensato per il Teatro d'arte dell'amico Pirandello, fosse rappresentato a Roma. Dopo d'allora, l'oblìo. Finché, settant'anni dopo, nel 2009, Giuseppe Emiliani lo riporta in scena al Goldoni di Venezia, con più successo di critica e pubblico dell'esordio.
Ed ecco, oggidì, Capitano Ulisse torna, come un Alvar Mayor al comando d'un veliero fantasma sull'onda del tempo, al teatro Trastevere di Roma con la regia di Andrea Martella. Terzo tempo creativo dell'Hangar Duchamp, la compagnia messa in piedi dal regista romano nel 2018, scampata alle gore del Covid. Tempo metafisico, questo, dopo il dadaismo di Cuore a gas di Tristan Tzara e il surrealismo delle Mammelle di Tiresia di Guillaume Apollinaire, messe in scena sempre nel teatro trasteverino.
Martella rilegge la figura che ossessionò Savinio come un antieroe prigioniero di sé stesso, più che del proprio fato. L'eroe sfinito, imborghesito e molle di Savinio, sfuggito alle donne della sua odissea per spiaggiarsi a Itaca, ultima meta da cui sarebbe presto fuggito, diventa nella messinscena martelliana ancor più altro da sé. Un essere sfuggente dall'io come dalle proprie donne, incapace di sostare e più ancora d'amare, se non l'idea della donna che l'attendeva in patria. Da cui si libererà, al pari dell'altre ma più cruentemente, per fuggire di nuovo, stavolta definitivamente, verso altri lidi e furori. Il senso del dramma, così rivisto, è nell'amore.
Per dirla con le parole del regista, confidate a Ivana Margarese: «Savinio ha preso un personaggio notissimo e gli ha tolto la consapevolezza dell'amore per Penelope. Questo semplice taglio nella sua storia ci fa vedere un eroe che non è più un eroe, un capitano che non comanda più nemmeno sé stesso. Non penso ci sia un'epoca per ricordarci che quando smettiamo di avere empatia verso il resto del mondo ci mettiamo su una strada che porta alla rovina. L'amore è l'azione più rivoluzionaria e contemporanea che esista».
L'amore, la sua potenza come motore e fine della storia – la nostra oltre quella d'Ulisse, e della trilogia – con buona pace dei teorici della lotta di classe e di Sebastiano Vassalli. Che amor trionfi, dunque. Il dramma dell'amore (rin)negato di cui si veste la figura d'Ulisse, del resto, può ben rivestire l'aura dello storico cialtrone matricolato divenuto in forza del mito il più sopravvalutato eroe d'ogni tempo. Ma lasciamo stare le cialtronerie d'altre guerre, anzi della madre d'ogni guerra, quella di d'Ilio o di Troia, più reale di quanto comunemente si pensi. Qua, sul palco trasteverino, piace la lineare luminescenza dello scenografico colonnato dorico, l'onde sonore che risaccano echi marini, lontani. La vicinanza tra spettatori e attori, la caratura degli interpreti. Il vociare stentoreo, sia pur velato d'una qualche incertezza, d'Euriloco-Eumeo (Walter Montevidoni), richiamante il capitano ai suoi doveri. Ulisse (Flavio Favale), tanto prossimo alla fisicità dell'eroe greco quanto distante dal vero, a dir delle fonti. I personaggi femminili prigionieri dell'incanto d'Odisseo, delle sue ossessioni trasposte in incubi, penitenziario dell'anima e della mente. Quel che piace è l'abilità con cui Martella martella – nomen omen – i suoi compari di sarabanda, trasforma una compagnia in un corpo unico, forgiato dalla comune passione.
Questa passione andrebbe forse spostata d'un paletto più in là. Messa alla prova dell'oggi. Ché riproporre dada e metafisici va bene, mostri sacri e dissacranti d'accordo, ma è l'ora di misurarsi con altri mondi, salpare verso nuovi approdi per la compagnia dell'Hangar. Ché in un tempo dove la sola forma di realtà è la surrealtà, capitan Martella dovrebbe misurare sé e i suoi con un surrealismo propriamente coèvo. A navigare per vecchie rotte s'incappa alfine nelle secche della memoria, nella bonaccia del velleitarismo, come il veliero di Calvino. Nuovi lidi, capitano, attendono. Di questo mare, noto e ben solcato, che altro dire? A parte l'o imputabile all'editore saviniano, spiace l'assenza di Nausicaa. Forse la più amata-ripudiata, tra le donne omeriche. Quanto a Penelope, s'attaglia a essa la presenza scenica di Vania Lai più che a Calipso. Più materna e ferace, più protettiva e audace della musa ogigiana nelle cui vesti la trasognante femminilità di Giorgia Coppi avrebbe trovato miglior ristoro, più che tra le braccia del fedifrago e uxoricida Ulisse.
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