Nel rapporto tra Draghi e i partiti della maggioranza, almeno i più nervosi tra loro, lo schema è sempre lo stesso. Di fronte alla richiesta di chiarire le questioni sensibili, il premier mostra una netta determinazione ad andare avanti senza concedere all’uno o all’altro nulla di sostanziale che faccia saltare il precario equilibrio su cui si regge il governo. Dopodiché vengono ricevuti in successione gli esponenti di quei partiti. Ne derivano colloqui abbastanza distesi, in cui i politici spiegano di non voler mettere in crisi l’esecutivo in tempo di guerra e tuttavia fanno capire di aver bisogno di un risultato, anche solo di facciata, con cui nutrire i rispettivi elettorati. Cosa ottengono? Di solito un mini-rinvio di decisioni già prese e qualche impegno verbale. Poiché nessuno se la sente di procedere verso uno sbocco che a quel punto sarebbe solo elettorale, il gioco dei “penultimatum” si esaurisce in una conferenza stampa in cui i capi-partito si dichiarano soddisfatti e, sia pure con misura, cantano vittoria.
È quello che è accaduto giorni fa con Conte, contrario all’aumento al 2 per cento delle spese militari (nonostante che tale indirizzo risalisse al suo governo) e tacitato con un ipotetico slittamento di due-tre anni. La storia si è poi ripetuta ieri con Salvini, Tajani, Lupi e Cesa che ottengono, a quanto sembra, un modesto slittamento per il nuovo catasto e la promessa che il presidente del Consiglio farà tesoro dei consigli del centro-destra per quanto riguarda la pressione fiscale nel prossimo futuro. In verità, niente o quasi che non fosse già previsto nel disegno volto a rimettere ordine con gradualità nel sistema.
C’è quindi una certa simmetria tra il metodo applicato da Palazzo Chigi a Conte e quello riservato a Salvini. Non significa che i problemi siano stati risolti: sono stati più che altro accantonati, senza che i 5S, prima, e la Lega (più Forza Italia) adesso abbiano ottenuto un mutamento di linea del governo. Si capisce perché. In una maggioranza larga come l’attuale, l’unica minaccia in grado forse di inquietare chi ha nelle mani il timone dell’esecutivo sarebbe quella di ritirare la fiducia e i ministri. Si poteva immaginare che gli eventi in Francia producessero un contraccolpo in Italia, visto l’esaurirsi dei partiti tradizionali e il successo delle forze cosiddette anti-establishment, quelle a cui dicono di ispirarsi i 5S contiani e la Lega salviniana. Ma per adesso così non è, anche se sarà meglio attendere il secondo turno di domenica 24.
L'ombra sovranista francese preoccupa anche Draghi. Che ora teme Salvini e Conte
dal nostro inviato
Tommaso Ciriaco
Al momento, Salvini deve far buon viso a cattivo gioco. L’ “ampia disponibilità” offerta da Draghi implica intanto che la delega fiscale sarà approvata in tempi rapidi e senza un voto di fiducia che sarebbe stridente con lo strumento della delega, oltre a essere il segnale di una maggioranza a pezzi. Si torna in sostanza al punto di partenza. Il tema delle tasse resta cruciale per il centrodestra, che dovrà presentarsi prima o poi all’elettorato con un progetto fiscale ben più ambizioso di quello che oggi sembra soddisfare il capo della Lega. Quanto ai Cinque Stelle, la guerra di Putin mette a nudo al loro interno un conflitto di posizioni. La linea filo-russa è ancora forte e si appella al “pacifismo” in funzione anti-Kiev, ma non manca chi preferisce essere solidale con l’Europa. Di fatto il conflitto guerreggiato può a lungo andare destabilizzare il movimento, a scapito della stabilità di governo.Original Article
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