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Open banking, Italia a rilento mentre parte il risiko aziende

Le barriere tecnologiche, una cornice normativa non sempre chiara e coerente, gli elevati investimenti necessari. Gli ostacoli alla diffusione dell’open banking non mancano, eppure il cambiamento epocale per l’industria finanziaria del nostro Paese, e di conseguenza per i consumatori e risparmiatori, prosegue senza soste. Uno scenario che crea opportunità per i nuovi operatori del settore, ma anche per quelli tradizionali che non si sono arroccati di fronte alla novità.

La partita in corso

Il motore principale di sviluppo del settore è la Psd2, direttiva europea che ha alzato i livelli di protezione per i clienti online, promuovendo al contempo l’innovazione su Internet e i pagamenti in mobilità (anche a livello internazionale) tra i Paesi appartenenti all’Ue, in direzione di operazioni più rapide in fase di esecuzione, senza rinunciare ai presidi in tema di sicurezza. La normativa comunitaria ha rotto con la tradizione, obbligando le banche dell’area ad aprire le proprie Api (Application program interface, cioè intermediari software che consentono a due applicazioni di parlarsi tra loro) a terzi interessati a entrare nel mercato. Una vera e propria rivoluzione per gli istituti di credito, abituati a custodire gelosamente il rapporto con la clientela. Questo significa che qualunque operatore abilitato, dietro consenso dell’utente, può utilizzare dati finanziari prima non raggiungibili sia per saggiarne l’affidabilità, sia per valutare la proposta di nuovi servizi in ottica di fidelizzazione e crescita della marginalità.

Da qui il significato di apertura che caratterizza l’open banking, sia relativamente all’accesso ai dati finanziari dei risparmiatori, sia nel senso di aprire le porte del settore a nuove imprese. Così non è un caso se negli ultimi anni è cresciuta l’offerta da parte di startup che, facendo leva sulle nuove leve della conoscenza, ampliano l’offerta relativa alla digitalizzazione del credito. Realtà che spesso si pongono in concorrenza con gli operatori tradizionali, erodendo loro quote di mercato, anche se la tendenza più recente è alle alleanze, con le banche che mettono sul piatto il proprio network e la capacità di fare investimenti e le giovani imprese che apportano nuove idee di business.

Grafico a cura di Silvano Di Meo

Lo studio

Cbi (Società consortile per azioni, partecipata da circa 400 banche e altri intermediari non bancari, che svolge il ruolo di hub per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione collaborativa dell’industria finanziaria) e la società di consulenza PwC hanno realizzato uno studio per fare il punto sull’evoluzione dell’open banking a livello globale. Dall’analisi è emerso che sono già più di 60 i Paesi nei quali sono state avviate iniziative in questo ambito. In alcuni casi, direttamente dal regulator locale (è il caso della Fca britannica e della Commissione Europea, così come della Accc in Australia), in altri casi su iniziativa degli operatori di mercato (questo è, ad esempio, lo scenario statunitense).

Il Global Open Banking Report promuove la normativa comunitaria, sottolineando come l’azione del legislatore sia da stimolo per la competizione nel mercato dei servizi finanziari, con l’apertura a nuovi player, il che contribuisce ad arricchire l’offerta bancaria per il cliente finale.

La rilevanza del fenomeno è confermata da alcuni importanti indicatori che attestano il dinamismo del mercato. Solo negli ultimi due anni è quadruplicato il numero di account servicing payment service provider (cioè le società che controllano direttamente e nella sua totalità l’online banking del cliente e che hanno un contratto di servizio diretto con il titolare del conto corrente), fino ad arrivare a quota 4 mila. Di pari passo è raddoppiato quello dei third-party provider (come gli istituti di pagamento e quelli di moneta elettronica), circa 500 ormai.

La spinta delle aggregazioni

La vitalità del settore è confermata dalle dinamiche m&a: nel solo 2021 vi sono state fusioni e acquisizioni per un valore di 2 miliardi di euro. Denaro in parte messo sul piatto da investitori istituzionali, più spesso dagli stessi gruppi bancari, che rilevando startup specializzate velocizzano i processi di innovazione rispetto a quanto sarebbe necessario se la stessa fosse sviluppata in casa. Con le tempistiche e le procedure tipiche dei gruppi di grandi dimensioni, oltre che con gli ostacoli tipici di realtà che non sono state concepite ab origine per accogliere i processi di innovazione ai quali stiamo assistendo oggi.

Il ritardo italiano

Dall’analisi di Cbi e PwC emerge che l’adozione dei servizi di open banking è ancora inferiore rispetto a quanto registrato in altre aree europee, in particolare i paesi nordici. La survey ha inoltre evidenziato che negli ultimi cinque anni le banche italiane hanno sostenuto importanti investimenti per adeguarsi alla Psd2 (in media oltre 2,5 milioni a testa) e di pari passo è cresciuto il numero di istituzioni finanziare che ha investito più di 1,2 milioni per lo sviluppo di servizi commerciali open banking. Secondo Marco Folcia, partner di PwC Italia, Emea Payments & Open Banking Centre of Excellence Leader, la direzione è quella giusta, “anche se il tasso di adozione di queste soluzioni è contenuto” sia dal lato dell’offerta, che degli utenti finali, considerato che solo il 3% dei risparmiatori italiani utilizza una o più funzionalità dell’open banking.

Come sostenere il decollo del settore

Per Folcia non esiste una strada unica, ma piuttosto è necessaria la convergenza di più motori: “L’incremento della consapevolezza tra gli utenti finali delle potenzialità insite nell’open banking; il miglioramento delle interfacce dedicate alle terze parti messe a disposizione dalle banche e lo sviluppo di iniziative di collaborazione, anche con operatori esterni al mondo finanziario, per diffondere una cultura open fra player di mercato”. Interventi che dunque coinvolgono l’intera filiera del settore.

Pagamenti digitali: l’Italia è terzultima in Europa

L’Italia ha ancora molta strada da percorrere per allinearsi al resto d’Europa in materia di pagamenti digitali.
Secondo il rapporto “Cashless 2022” realizzato da The European House-Ambrosetti, il nostro continua a essere un Paese fondamentalmente basato sul contante. Infatti, le operazioni cashless pro-capite nel 2021 si sono fermate a quota 61,5, un dato addirittura diminuito rispetto a quello dell’anno precedente (61,7). Nel Vecchio Continente, infatti, solo Romania e Bulgaria fanno peggio di noi, mentre la realtà più virtuosa è la Danimarca.

Gli investimenti del Pnrr, spiegano gli analisti, potrebbero contribuire a invertire la tendenza e a generare quasi 800 milioni di transazioni digitali aggiuntive per un controvalore superiore ai 27 miliardi di euro. Con tutto ciò che ne deriverebbe in termini di ammodernamento dell’economia, di risparmio (la gestione del contante ha un costo stimato in 9 miliardi di euro all’anno, senza considerare il rischio furti) e di contrasto all’evasione fiscale.

Secondo i consumatori intervistati, gli ostacoli principali alla diffusione del cashless restano i timori per le frodi – anche se le transazioni digitali vengono ritenute più sicure del contante – e i problemi nell’accettazione da parte degli esercenti.

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