Direi, di questa foto, che è bella, molto bella, ma lo direi se non fosse che è la trentesima nella sequenza quotidiana di immagini che arrivano dalle zone di guerra. Lo direi se non avessi imparato, giorno dopo giorno, foto dopo foto, a non farmi confondere dalla "bellezza", a cercare un varco narrativo che non sia scivolosamente estetico. Così, se osservo questa figura umana sullo sfondo delle rovine di Mariupol, provo a scavalcare la sua forza estetica e mi interrogo sull’espressione disorientata del ragazzo con il suo carrello arrugginito e la busta di plastica gialla.
Come ci si muove in una città devastata? Come si ci orizzonta dove niente è più riconoscibile? I palazzi ridotti a scheletri, le strade ricoperte di polvere e detriti. Mariupol non è più Mariupol, e non lo sarà più. Muoversi nella luce diurna della tregua dev’essere come avanzare comunque al buio, a tentoni, camminare incerti nel non-più. Un navigatore satellitare (ho provato) offre ancora la mappa intatta, il reticolato di strade, il verde dei parchi, l’indicazione degli hotel. Ma si tratta di una carta scaduta, di un disegno non più valido – topografia obliterata, come il calco di una città invisibile. E già rimpianta.
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