Vedo un rischio, anzi più di uno, nell’interessante ragionamento proposto dallo scrittore Francesco Piccolo su Repubblica del 12 aprile («In un mondo inumano non ci si può chiedere di essere soltanto buoni»). Il primo è che la frase di Italo Calvino citata nelle prime righe — a proposito della «sopravvivenza di un discorso umano in un mondo inumano» — sia un po’ fraintesa, o piegata a conclusioni che non erano di Calvino. Partiamo da qui: quando — partecipando a un convegno in Massachusetts nel febbraio del 1976 — Calvino pronuncia quella frase, lo fa nel contesto di una riflessione molto articolata sugli «usi politici giusti e sbagliati della letteratura». E se è vero, come scrive Piccolo, che Calvino prende le distanze da chi offre, intorno all’umano, discorsi approssimativi, generici, sentimentali, poco rigorosi, «senza responsabilità pratica», non è vero che sta negando in assoluto la possibilità e lo spazio di un discorso umano. Non accetta forme di consolazione regressiva (noi le chiameremmo “buoniste”), né la sterile provocazione fine a sé stessa; cerca però una terza via, quella del «tono dimesso e dubbioso» con cui si può contribuire all’auto-consapevolezza di una società. Piccolo dice che le voci di commento sulla guerra in corso in Ucraina «si stanno spegnendo.
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E non ne sentiamo la mancanza». Invece la sentiamo, e la sentirebbe anche Calvino: convinto che esista e debba esistere una funzione intellettuale che, rifiutando rigide ipoteche ideologiche e opinionismo alla buona, offra la sua «capacità d’imporre modelli di linguaggio, di visione, d’immaginazione, di lavoro mentale, di correlazione di fatti». Parla di modelli etici ed estetici, altro che rassegnazione e silenzio! Non sono convinto, come Piccolo, che basti la cronaca: e non perché non sia decisiva — lo è — ma perché anche alla più brutale rischiamo di assuefarci, di non riuscire più a reagire, né emotivamente né intellettualmente. Il che non vuol dire che lo scrittore debba mettersi a fare pietismo da due soldi, a indicare il proprio cuore sanguinante, o ad alimentare l’autoconsolazione narcisistica di stare dalla parte del bene. Può invece stabilirsi nel «bosco dei paradossi», compresi quelli legati a questa guerra e indicati da Piccolo, e da lì evitare che i cuori si raffreddino. Rubo una metafora a Stig Dagerman, al suo La politica dell’impossibile, per domandarmi: che ce ne facciamo dei cuori raffreddati? Anche senza offrire certezze o risposte sicure, anche senza consolare infantilmente, sono tenuto a non cedere alla logica dell’inumano.
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No, certo, non possiamo essere «soltanto buoni» (questo nemmeno nella vita in genere), ma non era forse lo stesso Calvino evocato da Piccolo a richiamare la necessità di riconoscere «chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»? La parola “pace”, ha ragione Piccolo, è complessa e difficile, ma non per questo impronunciabile. I libri, gli articoli, ricorda Calvino, sono fatti di parole! E se la parola “vittima” viene persa di vista dagli ingegneri dell’intelligenza in cerca di attenuanti per Putin, bene, posso dire: rimettiamola al centro del discorso. E quando Piccolo dice che con questa guerra l’inumano si è presentato vicinissimo sbaglia, perché è sempre vicinissimo: i fatti storici del passato e le terre che lui chiama lontane non sono un alibi, i testimoni di Auschwitz sono presenti come quelli dei lager libici. No, non mi piace per niente questa idea di rinunciare al «discorso umano», e farne la caricatura non impedisce di coglierne invece l’assoluta necessità. La necessità di cuori non raffreddati, cuori intelligenti che, pur consapevoli di essere spettatori condannati all’impotenza, non rinunciano a pensare. Sanno di non essere innocenti — cito dallo stesso testo di Calvino utilizzato da Piccolo — e sanno anche che non ha senso «un senso di colpa universale» né «un universale atteggiamento d’accusa»; e, vivendo la crisi, cercano, anzi cerchiamo «l’unica possibilità che abbiamo di diventare diversi da come siamo, cioè l’unico modo di metterci ad inventare un modo nuovo di essere».
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