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Moeche, quei granchi senza corazza, delizia della laguna veneta

Il carapace come un abito che cambia con il passare delle stagioni, quando il granchio ha bisogno di spazio per aumentare di volume e fa la muta (due volte l’anno) e diventa moeca. Parola che in veneziano significa morbida. “In primavera se ne ha un numero maggiore, se ne pescano di più e si prendono tutte le misure, mentre in autunno solo quelle più adulte, più grandi”, racconta Manuel Bognolo, moecante nato in una famiglia di antica tradizione. Pesca prima e poi allevamento, ma soprattutto la sensibilità di cogliere le sfumature, di riconoscere con un solo sguardo il momento esatto in cui i granchi verdi si preparano alla muta. “La pesca si fa nei bassi fondali della laguna di Venezia – prosegue Manuel – con le trezze, reti calate con dei pali lunghi circa due metri e mezzo. Le reti sono lunghe un centinaio di metri, ma variano a seconda della vastità della zona”.

Il granchio verde, quello comune il cui nome scientifico è carcinus aestuarii, ci entra da solo, “non si usano esche, entra camminando fino al covolo, una specie di nassa dove resta intrappolato. La mattina tiriamo sù il covolo e lo svuotiamo su grosse tavole in legno con un bordo. I granchi camminano fino al mastello – dove vengono raccolti – e portati alla Giudecca nella nostra zona di cernita. Questo posto lo chiamiamo barcaglio, anche se è su terra mantiene in nome di quando si faceva sulle barche ormeggiate in laguna”.

Fin qui pesca, poi inizia il vero lavoro del moecante, un mestiere che entra sotto la pelle passando per le mani e si insinua nella testa dagli occhi. Un mestiere che si impara ma non si può insegnare, un’eredità intellettuale che Manuel e i suoi sette fratelli hanno imparato dal papà Andrea, e lui da suo padre e prima ancora questo dal suo di padre. “Si prendono in mano i granchi uno alla volta, si guarda la pancia e dal colore riusciamo a capire quali da quel momento a venti giorni faranno la muta, chi diventerà moeca”. Solo la sensibilità della vista, riuscire a carpire la sfumatura di colore, permette questa cernita e raccolta in mastelli da 40 kg “poi svuotati sui vièri, che prendono il nome dai vivai, sono casse in legno che si legano ai coriaghi, pali messi in orizzontale, per rimanere a sfioro sull’acqua”.

Una ventina di giorni e i granchi saranno pronti per mutare la loro corazza, il carapace; trascorso questo tempo “tiriamo sù i vièeri quanto basta per arrivarci con le mani e togliamo gli spiantani, quelli che stanno per uscire dal dermascheletro, i granchi a cui mancano una ventina di ore per diventare moeche”. Un momento delicato, istanti in cui la sensibilità diventa ancora più importante: “Deve essere spostato perché se fra tutti c’è ancora qualcuno indietro con la muta può essere aggressivo con la moeca”. Tutelare la vulnerabilità di quando saranno morbidi, ripetere un gesto antico, salvaguardare il mestiere di famiglia, tutto in velocità e con una sola occhiata. Nessun margine di errore durante la cernita, “se per errore metti qualche granchio matto fra i buoni ti rovina tutto il vivaio, sono troppo aggressivi. I matti li ributtiamo in mare, sono quelli che devono stare nel loro ambiente per decidere di fare la muta, in cassetta non la farebbero. Non sappiamo il motivo per cui ammattiscono, i buoni vengono stressati da loro se li lasciamo nella cassetta, smettendo di fare la muta”.

Romanticheria della natura l’accoppiamento dei granchi, quasi facessero l’amore dopo il corteggiamento. Avviene in estate “quando il maschio ha il carapace resistente, riconosce la femmina – la cui muta avviene con alcune settimane di anticipo – che sta per diventare spiantano. A lei mancano una ventina di ore per diventare moeca, di natura è molto più piccola del maschio: lui la prende e la tiene sotto le sue zampe, aspetta che si faccia morbida. Quando diventa moeca se la mette davanti, la penetra e la feconda, poi se la rimette sotto le zampe e aspetta che torni granchio. Protegge la sua vulnerabilità, poi appena il carapace di lei torna duro la lascia andare”. Solo granchi maschi per le moeche che arrivano al mercato, “le femmine si raccolgono in autunno quando hanno il corallo, fecondate in estate ma che non hanno ancora sviluppato le uova. Vengono fatte lesse, si tolgono zampe e guscio, rimane solo la parte centrale che è soffice e piena di sapore”. Alla formazione delle uova le femmine, se pescate, vengono ributtate in laguna per tutelare la generazione successiva di granchi.

Morbide, le moeche sono pronte per diventare leccornie. “Noi pescatori le friggiamo infarinate. Sulla terra ferma le immergono in uova sbattute come per farcirle ma non è nostra usanza. Mangiamo un altro tipo di moeche che non arriva sui banchi del mercato, le teniamo solo per noi: le strapassae – stropicciate – Quando escono dal dermascheletro alcune non sopportano questa metamorfosi e muoiono, così la bolla che hanno sulla bocca non fa in tempo a riempirsi di acqua dal cui calcare verrà la robustezza del nuovo carapace. Queste stropicciate quello le cucini sono solo polpa.” Alle moeche la bolla di acqua trattenuta da una sottile membrana viene tolta incidendo con la punta di una forbice vicino alla bocca, premendo leggermente sulla pancia prima della frittura.

Lavoro faticoso come tutti quelli per mare. Sette giorni su sette, non c’è freddo e non c’è pioggia che fermi, 14 ore al giorno di pazienza e attenzione: “Vendere le moeche alle cifre di mercato è poco remunerativo, lo facciamo perché è il lavoro della nostra famiglia da sempre, per l’amore che abbiamo per la lagura, per il mare, perché è il nostro mestiere. Non lo fai per soldi, il lavoro del moecante prima o poi finirà”. Ma non succederà con i Bognolo. Fare il moecante non è il termine giusto, essere moecante è più adatto: “Significa avere la sensibilità di vedere la sfumatura di colore che anticipa la muta. Ognuno la vede a modo suo, ogni cervello elabora l’informazione in modo diverso. Ho iniziato da bambino per gioco, per dimostrare a mio padre che potevo essere un bravo pescatore, avevo i miei secchi e lui passava dicendo «questo s’è bon, questo s’è matt» sposando i granchi. Me li mostrava, facevo un altro secchio, e così via fino a quando non è stato sicuro che non sbagliassi più”. Oggi Andrea, soprannominato dai figli Lupo per la severità ma forse anche per come protegge il suo "branco’ di figli", fa le reti e non più la cernita, “ma fino a qualche anno fa passava sempre a controllare, anche se eravamo diventati adulti. Per noi è l’ultimo dei moecanti, riconosce il colore anche senza girarli sulla pancia. Nessuno di noi è capace”.

Una tradizione quella delle moeche si lega a Venezia ma viene da Chioggia, secoli fa. “Prima si pescavano i granchi in fase di muta con una rete a strascico, ma se ne prendevano pochi. A Chioggia secoli fa trovarono il modo per allevarle. I pescatori chioggiotti quando finivano nelle loro acque venivano davanti alla Guidecca, dove nei canali pescosi mettevano i loro vièri in stroppa (vimini). Quei ragazzi di Chioggia hanno trovato qui la morosa, la mia famiglia è nata così. Mio nonno Nane, Giovanni, quando finiva la pesca in laguna sud comperava i granchi dai buranelli, lì l’acqua è già fredda e i granchi fanno la muta in un secondo tempo. Loro andavano a pesce novello, è stato mio nonno a insegnare loro come fare”. Una tradizione di famiglia che prosegue e si rinnova, anche grazie all’intraprendenza di Manuel che, con il consenso del padre, ha trasformato il vecchio bragozzo di famiglia in barca da pesca turistica. A bordo di Rosa dei Venti si va a pesca, si assiste alla cernita quando la stagione lo permette, si vive la trasformazione da moeca in leccornia fra le briccole e la morbida cadenza veneziana che racconta la laguna, poi da leccornia diventa simbolo di una Venezia che non può restare sconosciuta.

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