Quando la guerra ha potuto, si è servita anche di loro. Cavalli impiegati negli eserciti, come mezzi di trasporto e come scudi. Muli e asini caricati di munizioni. Non ho mai capito come, ma anche i piccioni hanno fatto il loro, da messaggeri e portaordini. Quanto a polli e galline, sempre se ne è fatta brutale, per quanto comprensibile, razzia. Dei cani e dei gatti, questa guerra ci ha mostrato gli sguardi disorientati, nel ritrovarsi profughi fra i profughi, o nell’aggirarsi nelle città stravolte. Non so se queste mucche al pascolo a Lukashivka si siano accorte del razzo che si è piantato nella pozzanghera a pochi metri da loro.
A giudicare dalla posizione e dall’aria vigile della mucca che guarda verso l’obiettivo, forse sì. Direi che è perplessa, se non fosse che si tratta di un aggettivo incongruo rispetto a uno stato d’animo – quello della mucca – che non è traducibile in parole umane e resta dunque ineffabile. Ma non credo sia sbagliato leggere in questa immagine una lezione, naturale e naturalmente involontaria. Un discorso muto sulla differenza tra gli animali e gli altri animali, cioè tra loro e noi; un discorso muto e disperante su come la guerra umana, la tecnologia violenta di cui si avvale, coinvolga altre incolpevoli creature viventi, anche solo violando la loro quiete. Ecco, di queste mucche si può dire qualcosa che dei Sapiens, da una certa età in avanti, è difficile dire – e cioè che sono innocenti.
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