'Sparlare' su Whatsapp dei capi della società per la quale si lavora non fa perdere il posto, e la 'chattata' al vetriolo non richiede nemmeno di essere punita con una sanzione se la conversazione avviene tra privati in un contesto extralavorativo. Lo sottolinea la Cassazione che ha stabilito anche che l'utilizzo di Whatsapp non è di per sé 'sintomo' di una maggior diffusività dei contenuti denigratori.
Al centro della controversia, il licenziamento "per giusta causa" intimato nel 2017 al dipendente di una società: tre le contestazioni che l'azienda aveva mosso al lavoratore, tra cui quella di aver, in una conversazione via chat Whatsapp, con una ex collega, "criticato e denigrato i responsabili dell'impresa".
In primo grado, il tribunale di Udine aveva dichiarato illegittimo il licenziamento "per difetto di giusta causa". La Corte d'appello di Trieste aveva poi ritenuto, in particolare, che la conversazione via chat "non avesse alcun rilievo disciplinare", mentre aveva accolto parzialmente il ricorso dell'azienda, accertando il "minimo rilievo" delle altre due contestazioni e dichiarando risolto il rapporto di lavoro con la condanna della società a pagare un'indennità risarcitoria al lavoratore.
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di
Federica Angeli
Contro il verdetto dei giudici d'appello, entrambe le parti avevano presentato ricorso in Cassazione: la Suprema Corte, dunque, ha rigettato quello della società datrice di lavoro, osservando che le dichiarazioni contestate erano state pronunciate "nell'ambito di una conversazione extralavorativa e del tutto privata senza alcun contatto con altri colleghi di lavoro", per cui erano "circoscritte ad un ambito totalmente estraneo all'ambiente di lavoro". Né, si legge nella sentenza odierna, "si può sostenere che, per il mezzo con il quale erano state veicolate (una conversazione privata su Whatsapp, applicazione che consente lo scambio di messaggi e chiamate telefoniche), la condotta era potenzialmente lesiva: premesso che non integra una condotta in sé idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto l'aver espresso, in una conversazione privata e tra privati, giudizi e valutazioni, seppure di contenuto discutibile, ove, come nel caso in esame, sia stato escluso in fatto che tali dichiarazioni fossero anche solo ipoteticamente finalizzate a una ulteriore diffusione – scrivono i giudici del 'Palazzaccio' – resta irrilevante lo strumento di diffusione utilizzato".
E' stato accolto dalla Cassazione, invece, il ricorso del comandante che per gli altri due addebiti aveva perso il posto con il diritto solo ad alcune mensilità: ora ci sarà un appello bis perché i supremi giudici invitano a valutare la possibilità di dare sanzioni 'conservative' lasciando il comandante al suo lavoro.Original Article
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