Questi sono nomi, e sono giorni – segnati sul muro del seminterrato di una scuola. Persone uccise; persone morte per via delle condizioni difficili. È come un calendario murale, un desolante e luttuoso conteggio dei sommersi. Utile a nutrire, a tenere viva un'angosciante memoria a breve termine della piccola comunità costretta nei sotterranei. L’anziano morto per primo nella stanza grande. Il nome, il giorno. E gli altri che via via se ne vanno. Non è una stele funeraria, non è una lapide. È un "memento", che rende più visibile e più disperante quel confine labilissimo, accidentale, che separa i sommersi e i salvati. Li separa e allo stesso tempo li congiunge: gli assenti e i sopravvissuti, o sopravviventi, perché nell’inferno della guerra sopravvivere è una sfida alla sorte, una cabala impossibile, è la tensione di ogni fibra dell’essere.
Fra i pochi scrittori tedeschi che si sono misurati subito e a più riprese con l’orrore delle rovine della guerra, c'è Heinrich Böll. In un libro intitolato "Casa senza custode", racconta delle abitazioni in cui, a pace raggiunta, restano orfani e vedove. "La guerra è sempre buona – scrive – per una sceneggiatura, perché dietro c’è il fatto per eccellenza: la morte, che attira la vicenda verso di sé, la tende come la pelle di un tamburo, che rintrona al minimo tocco del dito". E ci lascia scorgere un bambino in una camera al buio, in attesa: spera che in sogno lo raggiunga il padre morto in guerra. La terra in cui giaceva suo padre, il bambino Martin se la immagina come "un buio d’inchiostro" che ne inghiottiva il corpo,
lo teneva invischiato come asfalto fresco e appiccicoso, lo teneva così forte da non lasciarlo venire nei suoi sogni. Tutto quel che riusciva a immaginare era il viso di suo padre piangente, ma in sogno non riusciva a vederlo nemmeno in lacrime.
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