Che l'infezione da Sars-CoV-2 possa provocare un vero e proprio sconquasso nel sistema della coagulazione, influendo anche sulla capacità di aggregarsi delle piastrine e quindi facilitando l'insorgenza di trombosi o più raramente, dall'altro lato, di emorragie, è risaputo. Ora però uno studio svedese pubblicato sul British Medical Journal dice che ci sarebbe un incremento esponenziale del rischio di fenomeni di questo tipo dopo Covid-19 rispetto a chi è sano.
Long Covid, i rischi di trombosi ed embolia dopo l'infezione
Nel primo mese dopo l'infezione si osserva un aumento di 5 volte del rischio di trombosi venosa profonda, un aumento di 33 volte del rischio di embolia polmonare e quasi raddoppia l'incidenza di emorragie. Il tutto, seppur le probabilità tendono a scendere col tempo, si mantiene anche nei controlli a tre e sei mesi, tanto che gli esperti svedesi che hanno condotto l'indagine segnalano come sia importante effettuare una profilassi mirata per ridurre i rischi.
Ci sarebbe infatti un aumento del rischio di trombosi venosa profonda con formazione di coaguli nei vasi delle gambe fino a tre mesi dopo Covid-19, di embolia polmonare fino a sei mesi, e di emorragia fino a due mesi dopo. I pericoli maggiori li corrono i fragili, chi ha altre patologie croniche e chi ha avuto quadri più complessi. Ma un rischio, seppur inferiore, esiste anche per chi ha "fatto" la malattia in modo lieve.
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di
Federico Mereta
Il campione analizzato
L'indagine (autore di riferimento Anne-Marie Fors Connolly dell'Università svedese di Umeå) è stata condotta utilizzando la banca dati dei registri nazionali svedesi, in cui sono raccolte le informazioni relative ad oltre un milione di persone con infezione confermata da Sars-CoV-2 dal febbraio 2020 al maggio 2021, confrontate con quanto emerso da una popolazione di controllo non contagiata di più di quattro milioni di persone.
Lo studio ha previsto due diverse modalità. In primo luogo si sono calcolati i tassi di trombosi venosa profonda, embolia polmonare e sanguinamenti in individui con Covid-19 prima e molto tempo dopo la diagnosi di Covid-19, confrontati con i tassi di diversi intervalli di tempo dopo la diagnosi di malattia (giorni 1-7, 8-14, 15-30, 31-60, 61-90 e 91-180).
Nella seconda analisi, gli esperti hanno calcolato i tassi di trombosi venosa profonda, embolia polmonare e sanguinamento entro un mese dopo la diagnosi di Covid-19 nel gruppo Covid-19 e li hanno confrontati con i tassi corrispondenti nel gruppo di controllo. I risultati mostrano che rispetto al periodo di controllo, i rischi erano significativamente aumentati 90 giorni dopo il Covid-19 per trombosi venosa profonda, 180 giorni per embolia polmonare e 60 giorni per sanguinamento.
Dopo aver eliminato altri fattori che potevano interferire sui risultati, i ricercatori hanno riscontrato un aumento di 5 volte del rischio di trombosi venosa profonda, un aumento di 33 volte del rischio di embolia polmonare e un aumento di quasi due volte del rischio di sanguinamento nei 30 giorni dopo l'infezione.
Rischi più alti per chi ha sviluppato la malattia nella prima ondata
I rischi sono risultati maggiori nei pazienti con Covid-19 più grave e durante la prima ondata di pandemia rispetto alla seconda e alla terza ondata. Secondo gli esperti su questa tendenza potrebbero aver inciso i miglioramenti nel trattamento e la copertura del vaccino nei pazienti più anziani dopo la prima ondata.
Attenzione: anche tra i pazienti covid-19 lievi e non ospedalizzati, i ricercatori hanno riscontrato un aumento dei rischi di trombosi venosa profonda ed embolia polmonare. Non è stato riscontrato un aumento del rischio di sanguinamenti nei casi lievi, ma un notevole aumento è stato osservato nei casi più gravi.
Conclusione: Covid-19 potrebbe essere considerato un fattore di rischio indipendente per trombosi venosa profonda, embolia polmonare e sanguinamento e il rischio di questi esiti è aumentato rispettivamente per uno, sei e due mesi dopo la malattia.
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"Dati clinici, di laboratorio e autoptici dimostrano che vi è una associazione tra la malattia Covid-19 e la malattia tromboembolica (con trombosi venosa profonda ed embolia polmonare) – spiega Giovanni Esposito, Presidente della Società Italiana di Cardiologia Interventistica – GISE. I disordini "coagulativi" associati alla diagnosi di Covid-19 sono stati riconosciuti fin dal principio, anche quando le conoscenze della malattia erano scarse, come uno dei meccanismi fisiopatologici principali che determinavano la prognosi dei pazienti. Ad oggi molto di più sappiamo dell'infezione da SARS-COV2 e sempre più emerge da un numero di studi che non ha precedenti nella storia. Certamente un così ampio e rigoroso studio, aggiunge un ulteriore tassello nel complesso quadro di questa malattia".
I problemi nella pratica clinica
Attenzione però. "Sebbene la terapia anticoagulante mirata a prevenire complicanze tromboemboliche, che può però determinare un aumentato rischio emorragico, sia divenuta una strategia terapeutica importante nei pazienti affetti da Covid-19, ancora oggi il tipo, la durata e l'intensità della terapia anticoagulante da prescrivere, così come eventuali differenze sulla base della severità della malattia stessa, restano punti ancora oggetto di ampia discussione ancora da chiarire, con alcuni importanti studi ancora in corso – precisa l'esperto. Pertanto nella pratica clinica non vi è stata e non vi è tutt'ora uniformità nella gestione di queste terapie e inevitabilmente ciò può influenzare in modo rilevante i tassi di eventi trombotici e di sanguinamento osservati in una così ampia popolazione, senza per forza dover attribuire queste differenze al virus e alla malattia stessa".
Covid, una malattia ancora con tante incognite
Un ultimo aspetto non va dimenticato: nei lunghi mesi della ricerca ci sono stati diversi effetti della malattia e delle sue conseguenze correlate magari a diverse varianti e al diverso stato immunitario dei pazienti affetti grazie alla disponibilità e diffusione dei vaccini. Conclusioni possibili? "Si tratta di uno studio sia interessante ed importante perché evidenzia che potrebbero esserci dei rischi clinicamente rilevanti anche a distanza dall'infezione e anche in coloro che abbiano avuto malattia meno severa – fa sapere Esposito. Ma soprattutto evidenzia che non abbiamo certezze, piuttosto ulteriori ipotesi su cui lavorare e dunque ci sono ancora tante cose che la scienza deve ancora fare per chiarire i meccanismi, le conseguenze e la gestione ottimale di questi pazienti in fase acuta e nei mesi successivi alla malattia".
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