Larysa vive a Bucha. Ha sessantacinque anni. Ha atteso, come altri, gli aiuti umanitari. In questo scatto, sta piangendo. Piange mentre stringe una forma di pane chiusa nel cellophane. Non c’è niente da aggiungere. Se non, forse, la parola fame. Una parola che, nel lessico della tragedia, rischia di restare indietro – appannata, meno urgente. E invece non esiste niente di più urgente, finché si è vivi, della fame. Niente.
Ma non ci pensiamo, non lo sappiamo, non sperimenteremo forse mai quel morso, quella disperazione. Chiunque abbia vissuto anni di guerra, a qualunque latitudine, in qualunque epoca, racconterà della fame. Memoria violenta, incancellabile – quella che impediva, che impedisce ancora ai vecchi testimoni dell’ultima guerra mondiale di gettare via anche il pane raffermo. Uno scrittore francese che è stato bambino negli anni Quaranta del secolo scorso, J.M.G. Le Clézio, premio Nobel per la letteratura, comincia con queste parole un suo romanzo:
So cos’è la fame, l’ho provata.
Racconta di essere stato tra quelli che corrono per strada di fianco ai camion degli americani, tentando di afferrare al volo cioccolata e sacchi di pane lanciati dai soldati. E di quella prima volta che ha assaggiato, alla fine della guerra, il pane leggero, fragrante, «con la mollica bianca come il foglio su cui scrivo». Probabilmente, aggiunge,
non c’è stato più nulla che mi abbia tanto appagato, non ho mai più assaggiato niente che abbia placato la mia fame a tal punto, che mi abbia saziato altrettanto.
Forse lui saprebbe dire qualcosa in più sul pianto di Larysa. Quella fame – dice – «me la porto dentro. Non posso dimenticarla».Original Article
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