Saranno i rigassificatori a risolvere la crisi energetica innescata dal conflitto in Ucraina? Ci libereranno dalla dipendenza dal gas russo? Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani negli ultimi giorni ha più volte ribadito che si sta lavorando per affrancarci dal metano di Mosca in 24-30 mesi, per poi specificare che tra le azioni da mettere in campo in questo periodo c'è anche la costruzione di almeno due nuovi rigassificatori. Ma di cosa si tratta esattamente? Quanti ce ne sono già in Italia? Quali sono le ragioni di chi ne auspica di nuovi e perché c'è chi si oppone?
Si tratta di un impianto industriale che riporta allo stato gassoso il gas naturale liquefatto trasportato da apposite navi (gasiere). La liquefazione si rende necessaria per abbattere il volume da trasportare: il gas liquefatto occupa 600 volte meno spazio che allo stato gassoso. Per ottenerne la liquefazione occorre raggiungere e mantenere una temperatura di 161 gradi sotto zero. Nei rigassificatori avviene il processo inverso: si scalda il gas liquefatto, che una volta allo stato gassoso può essere immesso nei gasdotti. I rigassificatori possono essere costruiti sulla terraferma (ma comunque in modo che le navi possano attraccare per svuotare le loro cisterne), posso essere adagiati sul fondale marino, o realizzati in modo da essere galleggianti e quindi trasferibili.
La crisi Russia-Ucraina
di
Luca Fraioli
L'Italia ha tre rigassificatori attivi. L'impianto onshore di Panigaglia, (La Spezia) ha una capacità di 3,4 miliardi di metri cubi all'anno. Il rigassificatore OLT di Livorno è in realtà una nave ormeggiata a 20 km dalla costa e ha una capacità di 4 miliardi di metri cubi all'anno. Infine, il terminale GNL Adriatico, con due cisterne adagiate sul fondale al largo di Porto Viro (Rovigo) che possono trattare 8 miliardi di metri cubi all'anno di gas liquefatto. Secondo il ministro Cingolani questi tre impianti stanno operando al 60% delle loro possibilità, e dunque andrebbero sfruttati di più. Ci sono infine due impianti autorizzati ma mai realizzati per una serie di veti e contenziosi: il primo a Gioia Tauro, il secondo a Porto Empedocle.
In Italia il gas naturale liquefatto arriva per il 75,3% dal Qatar e poi da altri 6 Paesi: l'11,8% dall'Algeria, il 6,1% dagli Stati Uniti, il 3,5% dalla Nigeria, l'1,8% da Trinidad e Tobagoe per valori inferiori all'1% da Spagna e Egitto. Nel 2021 l'Italia ha importato 9,8 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto, pari al 64,4% della capacità di rigassificazione totale e al 12,9% dei consumi totali di gas del Paese. Va ricordato che il gas russo rappresenta invece circa il 40% del nostro fabbisogno.
Dunque se ci si volesse affrancare interamente dal gas russo affidandosi a quello liquefatto importato via nave si dovrebbe quadruplicare la nostra capacità di rigassificazione. In realtà si sta agendo su più fronti: per esempio diversificando le fonti di approvvigionamento via gasdotto e puntando sulle rinnovabili. Ma il gas liquefatto fa parte della strategia. Lo hanno detto chiaramente i ministri Cingolani (che ha previsto l'acquisto di un rigassificatore galleggiante entro giugno) e Giovannini che ha auspicato lo sblocco del progetto di Gioia Tauro.
Quello di Porto Viro, la cui proprietà è condivisa da ExxonMobil (70,7% ) Qatar Petroleum (22%), Snam (7,3%), è costato 2 miliardi di euro e ci sono voluti 12 anni per realizzarlo, tra il primo studio di fattibilità (1997) e l'entrata in funzione (2009). Discorso diverso per le navi FSRU (Floating Storage and Regasification Units): possono essere disponibili in pochi mesi e costano "appena" 400-500 milioni di euro.
La guerra in Ucraina rende possibile, se non probabile, uno stop alle forniture russe di gas anche in tempi brevi. Comprensibile dunque che il governo prenda in considerazione tutte le possibili soluzioni per non lasciare il Paese a corto di energia. Persino l'amministratore delegato di Enel Francesco Starace, da tempo impegnato in una crociata contro i combustibili fossili, ha ammesso che, parallelamente alla riduzione dei consumi di gas andrebbero anche realizzati due nuovi rigassificatori per svincolarsi da quello in arrivo dai gasdotti.
"Tuttavia", fa notare Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr specializzato in transizione energetica, "bisogna chiedersi se ha senso investire sul gas naturale e sulle sue infrastrutture in questo momento storico. Si tratta di spendere miliardi di euro in opere che tra iter autorizzativi e realizzazione vera e propria saranno pronti, nella migliore delle ipotesi, tra cinque anni, opere che per ammortizzare i costi devono operare a regime per almeno 25 anni. Ma noi sappiamo che i combustibili fossili vanno abbandonati rapidamente per poter rispettare gli impegni di decarbonizzazione che l'Europa si è data per il 2030 e il 2050. Insomma, si troveranno colossi privati pronti a investire in un business destinato a spegnersi?".
Alle preoccupazioni finanziarie si sommano quelle ambientali: "Il gas liquefatto ha costi energetici molto alti, perché va tenuto a 161 gradi sotto zero e va trasportato da un capo all'altro del mondo via nave. Per non parlare di quello estratto negli Usa con la tecnica del fracking, che inquina le falde acquifere e provoca emissioni di gas serra nell'atmosfera".
Faq
di
Andrea Galliano
"Prima di percorrere la strada di nuovi rigassificatori vanno fatti studi accurati, altrimenti si corre il rischio di dotare il Paese di infrastrutture sovradimensionate. Fino a prima della crisi Ucraina la capacità di importazione di gas era superiore al nostro fabbisogno", avverte Gianni Silvestrini, direttore scientifico del KyotoClub e direttore generale del ministero dell'Ambiente negli anni in cui veniva varato il progetto GNL.
"Certo se davvero dovremo rinunciare definitivamente a tutto il gas russo uno o due rigassificatori serviranno. Si parla anche di fare nuovi gasdotti, da Israele o dalla Grecia, ma allora meglio i rigassificatori, magari galleggianti che hanno tempi realizzativi ridotti e posso essere dislocati in punti diversi a seconda delle esigenze".Original Article
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