È una mattina di metà marzo, c’è il sole, ma le temperature sono ancora piuttosto rigide. Questa donna si affaccia al balcone del palazzo in cui vive, a Kiev. Se scontorni il suo gesto, il colore della tovaglia o del lenzuolo rosa, è tutto così naturale – è una vicina di casa, appena un po’ sovrappensiero, come può capitare di essere mentre si svolgono le faccende domestiche. Ma se non scontorni il gesto, c’è il palazzo crivellato, ancora in piedi, ma segnato dalla guerra che preme sulla città. La guerra non ha un volto di donna, dice la grande scrittrice bielorussa nata in Ucraina, Svetlana Aleksievi. Le donne, di una guerra, ricordano altro, ricordano in modo diverso. «La loro guerra ha l’odore, il colore, il sapore dei dettagli che sostanziano l’esistenza». Il mondo come lo conoscevi è già distrutto, il paesaggio che ti si presenta al balcone è stravolto, guastato. Eppure ti affacci, e fai prendere aria a un lenzuolo. Fino a che punto riuscirà a difendere la sua vita? Fino a che punto si può difendere la vita che conosciamo?

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