Ammettiamolo, il tema della leadership al femminile, a differenza di quella maschile, somiglia a un sostantivo irregolare difficile da declinare, perché comunque la si interpreti il rischio di sbagliare è alto. La sua “irregolarità” nasce dall’impossibilità di assumere quella leadership durante secoli di esclusione dai ruoli di potere in un mondo fatto a “misura d’uomo”. Per fortuna, però, i tempi cambiano e l’accesso al tavolo delle decisioni per quanto difficile è ormai una prospettiva possibile, ma non necessariamente indolore. Riuscire a rompere quel soffitto di cristallo, infatti, prevede quanto meno un urto doloroso, e il rischio di ferirsi con i cocci di vetro. Tutti quei grandi e piccoli ostacoli in cui si può inciampare a ogni passo: misoginia, sessismo, discriminazione di genere, o semplicemente mancanza di pari opportunità. E quando anche tutto volge al meglio ecco che si verifica un paradosso disarmante: alcune che ce la fanno finiscono per usare contro le altre gli stessi comportamenti che hanno ostacolato la loro ascesa.
Nel 1973, un team di studiose trovò una definizione per questo fenomeno: la sindrome della Queen Bee, o dell’ape regina. Quasi tutte hanno una storia da raccontare su una capa che le ha prese di mira, che ha esercitato il mobbing, rendendo impossibile il lavoro o l’eventuale avanzamento. Ai tempi, le ricercatrici usarono questa definizione: «Si tratta di donne che hanno raggiunto il successo in un campo tradizionalmente dominato dagli uomini. Queste allora acquisiscono tratti maschili e prendono le distanze dalle altre donne al lavoro al fine di mettere al riparo il loro successo da ogni possibile concorrenza».
Fra le declinazioni possibili della leadership al femminile, sembrerebbe pacifico affermare che si tratti di una delle peggiori interpretazioni. Un giudizio questo che, però, farebbe ricadere la responsabilità esclusivamente sulle donne. E se con questo epiteto si rischiasse di incorrere in un’altra definizione sessista? «Perché non esiste un’espressione equivalente per un uomo che si comporta allo stesso modo», fa notare Amy Gallo, sociologa e scrittrice per l’Harvard Business Review, con un podcast dal titolo Women at Work e un prossimo libro in uscita – Getting Along: How To Work With Anyone (Even Difficult People) – in cui analizza anche il fenomeno della Queen Bee. «Un uomo con le stesse caratteristiche viene definito competitivo. Volendo evitare quindi di scivolare in definizioni che sono frutto di pregiudizi legati al genere, si dovrebbe parlare semplicemente di cattiva leadership», spiega. «Lo stereotipo diffuso è che le donne in posizioni di rilievo debbano prendersi cura delle altre donne e non essere competitive. Altrimenti sono etichettate con il termine dispregiativo di Queen Bee. Ci aspettiamo lo stesso dagli uomini? No. Perché?».
Gallo, nel suo podcast, mette in guardia dal giudicare le altre donne attraverso una lente intrisa di bias inconsapevoli verso il nostro stesso genere. Ciò non significa giustificare i comportamenti scorretti: «Che si tratti di donne o di uomini, un’azienda o un’organizzazione è tenuta a monitorare che sia rispettata l’uguaglianza di genere, che ci sia un clima di correttezza, e deve esigere che chi sbaglia risponda dei propri comportamenti».
Insomma, bisogna allargare lo sguardo al contesto, sembra suggerire Marianne Cooper, sociologa presso il Clayman Institute for Gender Research alla Stanford University: «Il fenomeno Queen Bee è, in realtà, il risultato di una diseguaglianza sistemica dilagante fra i generi. Le donne sono capaci di esercitare la leadership tanto quanto gli uomini, ma gli studi indicano che la percezione diffusa è che debba avere caratteristiche tipiche maschili. Ciò mette le donne nella posizione di dovere dimostrare continuamente il loro valore assumendo appunto tratti maschili, di dovere fare di più per essere considerate competenti». Il fenomeno è parte di un preciso ecosistema. «I comportamenti da “ape regina” emergono soprattutto in ambienti dominati dagli uomini, in cui le donne sono svalutate. Ambiti di lavoro in cui il sessismo è palpabile. In queste condizioni una donna cerca il più possibile di dissimulare il fatto di essere tale, prendendo le distanze dal gruppo di appartenenza».
Una delle stesse ricercatrici che coniò il termine Queen Bee avrebbe affermato di essere rammaricata della scelta, perché al di là del nome che fa presa, quello dell’ape regina è un fenomeno molto complesso. Reiterare tale definizione finirebbe per rafforzare lo stereotipo, non rendendo alcun servizio alla causa delle donne. Gli studi indicano la strada da percorrere: «Assicurare che ci sia un ambiente di lavoro inclusivo in partenza, dove si premiano i comportamenti e non solo i risultati. Lavorare su una leadership moderna che comprenda che il successo è uno sforzo comune, non lo si raggiunge da soli, ma con il supporto reciproco», conclude Gallo.
Commenti recenti