Sono stata una bambina poco abituata — per niente in verità — a distinguere le cose da maschi e le cose da femmine. L’infanzia, come certi neutri plurali in latino, non ha avuto per me alcuna questione, paletto o distinzione di genere. Per cose non intendo solo i giocattoli o i giochi ma pure alcuni concetti che storicamente, o per abitudine — e la differenza tra storia e abitudine per chi non è nato in famiglie la cui storia non è trascritta dai libri, cioè la maggior parte delle famiglie, è poca — sono destinati ai maschi che si suppongono più portati alle costruzioni, al meccano e ai concetti matematico-scientifici.
Sono stata d’altronde la prima nipote del padre di mio padre — che ha avuto, mentre era in vita solo nipoti femmine perché quando è arrivato mio cugino Alessandro, nonno era già morto — che, quando stavo con lui, non smetteva di fare il suo cioè impastare la calce, fare piccoli lavoretti in muratura, occuparsi del pozzo nero. Sempre in gilet di lana o di panno, cravatta e cappello. Ne ho dedotto, quando mi è capitato di pensarci, che nemmeno mio nonno, nato nel 1908 aveva una distinzione tra cose da maschi o cose da femmina non per pedagogia o illuminazione certo, ma perché non avrebbe saputo fare altro.
Per me, dunque, per distrazione, intenzione o occasione, il racconto e la messa in atto di una predisposizione di genere, non c’è stato. Motivo per cui ho compreso molto tardi la necessità, sociale, politica ed educativa di raccontare storie di donne scienziate, esploratrici, matematiche e astronaute. Di donne in grado di cambiare una lampadina o stringere una vite. Il racconto di donne col trapano. Il più grande regalo che mi hanno fatto i miei genitori è stato mostrarmi un mondo in cui tutto per me era accessibile. Credo che questo faccia l’amore. E i due sono stati talmente efficaci nel loro amore e nella loro tensione educativa che io ci ho creduto. Ho creduto che il mondo fosse senza limitazioni per ciascuna donna, che i maschi e le femmine avessero le stesse opportunità, possibilità e capacità, che non esistesse alcuna discriminazione nell’Occidente in cui ero nata e in cui crescevo.
L’amore, come ci insegnano le favole, è un incantesimo. E tutti gli incantesimi nascondono o mascherano la realtà e ne alterano lo scorrere del tempo. Dunque, il mio guardare alla storia delle donne come ho guardato negli anni — prima di tutto grazie alla scuola pubblica — alla storia dell’arte, della musica, della scienza, della filosofia, come insomma un punto di vista eminentemente culturale, è arrivato molto tardi. Molto tardi intendo meno di venti anni fa. Molto tardi intendo dopo aver terminato i corsi di studio ordinari e aver proseguito in alte specializzazioni. Molto tardi intendo quando mi ero già innamorata e avevo capito che gli amori, grandi o piccoli che siano, possono finire. Che il decadimento e la fine — deformando una osservazione di Carl Marx — sia nella storia che nella natura sono un laboratorio della vita.
Così adesso, ogni volta che posso, e in questo caso, cerco di nominare — nome e cognome — quelle donne che grazie a genitori illuminati, precettori incantati, tigna personale, caso e occasione, distrazione o sottovalutazione (c’è anche questa…) hanno fatto scienza quando pochissime donne o nessuna la studiavano. Studiare è il tema. Non si arriva a risultati scientifici senza anni di studi ossessivi e minuti, senza quel formalismo necessario a sostenere e potenziare l’intuizione. Quando si parla di scrittura si pensa sempre ai romanzi e si trascura l’accelerazione data alla matematica dalla standardizzazione del linguaggio simbolico da qualcuno cioè che, avendo un problema sostanziale ha intuito che fosse anche sostanziale e ha creato un simbolo. Mi piacerebbe che insieme a storia della filosofia a alla storia dell’arte a scuola si studiasse anche la storia delle donne. Secondo il medesimo principio. E cioè. Come la storia dell’arte ci racconta la storia delle battaglie, delle incoronazioni, dei tradimenti e dei fallimenti. Come la storia della filosofia ci racconta l’alleanza tra nazioni e persone, l’evoluzione dei macchinari e delle credenze. Ecco, come la storia delle donne ci racconta la storia degli uomini che per tanti — e di certo — per me, coincideva con la storia di tutti, anche con la mia, perché per me quel "tutti" è nato come un neutro plurale cioè senza distinzione di genere e collettivo. Tutti uguali. Tutte uguali, utilizzando ora un femminile sovraesteso. Cosa la storia degli uomini dice delle donne lo sappiamo e non è né veritiero né lusinghiero.
Questo libro — e penso al lavoro fatto, in italiano, dai libri di Serena Dandini, Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, Maura Gancitano, Giulia Blasi, il lavoro fatto su Instagram dal profilo “La scienza Coatta”, cito quelli che ho adesso davanti agli occhi — va nella direzione di rispondere alla domanda cosa dicono e quanto rivelano le storie di singole donne sulla storia dell’evoluzione scientifica e politica, medica e geografica di tutti gli esseri umani?
La prima cosa che si capisce è che la curiosità e l’immaginazione non sono appannaggio dei maschi, anzi, come tutti i muscoli e i sentimenti si esercitano, hanno bisogno di aria, di spazio, e di tempo. E dunque, più che predisposizioni naturali sono costumi culturali. Negli anni del liceo, ho letto un libro di Ortega y Gasset con un incipit formidabile: «la storia è per l’uomo ciò che la natura è per l’animale». Gli altri sono insomma il nostro tempo, il nostro spazio e la nostra aria. E possono diventare i nostri muri e i nostri recinti.
Questo libro è dunque un appello. Come quello che si fa — o almeno si faceva a scuola — durante la prima ora di lezione. Come tutti gli appelli segna una presenza. Alcune di queste donne sono morte, secoli fa, altre sono vive, altre sono state contemporanee delle mie nonne o delle mie bisnonne. O delle vostre. Nonostante la prossimità temporale porti, necessariamente, un profluvio di particolari, mentre il passato, spesso, è qualcosa se non di immaginato, di intuito, queste biografie hanno tutte più o meno la stessa lunghezza e tutte più o meno la stessa definizione di particolari, perché appunto il libro è un appello, segna la presenza delle donne nella scienza. Tra Metrodora (II-IV secolo) a Samantha Cristoforetti e Fabiola Gianotti (viventi) passano molti secoli e in questo tempo la condizione delle donne e l’accesso agli studi in generale e scientifici in particolare — almeno dall’Occidente dal quale scrivo — è cambiato. Di Cristoforetti e Gianotti possiamo indicare i vestiti, conosciamo aspetti della loro vita privata, sappiamo descriverne il volto, ne abbiamo sentito la voce, di Metrodora no. Ma il fine di questo libello è segnare una presenza. Per ognuna troverete illustrazioni. Tarocchi che, come accade spaccando un mazzo di carte, indicano una via, suscitano una domanda. Un libro che lascia a chi legge — alle bambine, alle ragazze, alle donne — la certezza di non essere pioniere nel caso intraprendano studi scientifici, ma proseguire una genealogia che comincia da molto lontano. Il rapporto tra le donne e la scienza è infatti, come gran parte delle cose del mondo, una questione di modello. E di immaginazione.
La collana
Ragazze coraggiose in quattro volumi
La collana "Le intrepide" è curata da Anna Mainoli, e ogni volume è in edicola a 12,90 euro in più rispetto al prezzo di Repubblica. Il primo volume è quello di cui parla Chiara Valerio qui sopra. Dal 22 marzo Elena Stancanelli introduce il secondo sulle donne tra arte e spettacolo. Dal 5 aprile arrivano le letterate: ne parla Viola Ardone. Infine dal 19 aprile Concita De Gregorio si occupa delle donne tra storia e politica.
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