Il patriarcato ha segnato anni di battaglie delle donne. Ma se pensate che sia storia antica vi sbagliate. Il sociologo francese Emmanuel Todd lancia la provocazione, negando il dominio dell’uomo sulla donna. A rispondergli abbiamo chiamato Ida Dominijanni.
«Il dominio dell’uomo sulla donna non è mai esistito. E non è assolutamente vero che più si va indietro nel tempo, più oppressione femminile si trova». A sganciare la bomba è il sociologo, storico e antropologo francese Emmanuel Todd nel suo libro Où en sont-elles?. Un saggio che si scaglia appunto contro il femminismo “antagonista” che lui chiama della terza ondata (colpevole, a suo dire, di aver peggiorato la vita delle classi popolari). Una provocazione troppo forte per non farci sobbalzare sulla sedia. E con noi la filosofa femminista Ida Dominijanni. Che attraverso le pagine di D gli risponde, argomentando, per le rime. «Caro Emmanuel, sei fuori strada». Quell’“ordine” c’era eccome. E semmai è stato messo in crisi proprio dall’irruzione delle donne nella sfera pubblica. Il prezzo di questa sovversione, però, lo stiamo ancora pagando. «Perché, proprio a causa di una certa virilità ferita e per la perdita di potere, gli uomini reagiscono in modo regressivo e violento». Nelle prossime pagine, quindi, un “faccia- a-faccia” a distanza che vale la pena leggere. E che potrete commentare scrivendo a dcommunity@repubblica.it
Parola del sociologo Emmanuel Todd, che sostiene: «Il femminismo antagonista scatena oggi una guerra dei sessi senza senso». Perché la parità sarebbe raggiunta. A seguire la risposta di Dominijanni.
di Eugénie Bastié
La violenza neo-femminista sopraggiunge proprio quando l’emancipazione femminile è stata raggiunta: lo afferma il sociologo e antropologo francese Emmanuel Todd, che nel suo Où en sont-elles? (Seuil) fa a pezzi l’ideologia delle vittime e la teoria di genere e imprime una luce diversa al nostro modo di considerare il rapporto tra i sessi.
Nel suo libro lei attacca con severità il “femminismo della terza ondata” e la teoria di genere, che lei accusa di voler scatenare una guerra dei sessi e di essere un’ideologia fuori dalla realtà. Di certo, non si farà molti amici a sinistra… Che cosa l’ha indotta a scrivere questo libro?
«Confesso di provare una certa insofferenza nei confronti dell’evolversi di quello che chiamo il “femminismo della terza ondata”, un femminismo antagonista. Nella mia generazione e negli ambienti che frequentavo regnava un femminismo assoluto. A colpirmi è l’irruzione in Francia di un femminismo che assomiglia a quello del mondo anglo-americano. Io lo associo al retaggio del protestantesimo, in verità molto più “patriarcale” del cattolicesimo che aveva una dimensione matricentrica con il culto della Vergine Maria. Il messaggio di Lutero fu molto patriarcale. Si passò da Maria a Eva, la peccatrice. La violenza del femminismo nel mondo anglo-americano deriva in buona parte da una reazione a questo retaggio».
Lei parte da un paradosso: assistiamo a una ripresa della contestazione della supremazia maschile “nel momento stesso in cui il movimento di emancipazione femminile sembrava prossimo a raggiungere i suoi obiettivi”. Come si spiega questo fenomeno?
«Se pensiamo al successo del libro sulle streghe di Mona Chollet (Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medievali al #MeToo), tra le classi medie istruite, non possiamo non formulare delle domande: come è possibile che le donne moderne possano identificarsi nella sorte toccata a circa 40mila donne sterminate, perlopiù nel mondo germanico, dalla furia maschile nel corso del XVI e del XVII secolo? Il sorpasso delle donne nel campo dell’istruzione è molto più antico di quanto si immagini. Nel 2019 in Francia, nella fascia dei 24-34enni, ha portato a termine gli studi superiori il 52% delle donne rispetto al 44% degli uomini. Negli studi superiori, l’inversione del “rapporto tra i sessi” è avvenuto nella generazione di chi oggi ha 50 anni. Viviamo da molto tempo in un predominio matricentrico educativo, anche se nel 4% della parte più alta della società resiste un sottile strato di predominio maschile. Il malcontento femminile più che con il permanere di un certo predominio maschile, si spiega con l’accesso delle donne a tutti i problemi maschili, rancore di classe, sgomento, ansia riguardante il proprio destino e così via».
In ogni caso, non può negare che esistano ancora divari economici considerevoli tra uomini e donne…
«Una certa supremazia maschile persiste ancora nei quadri dirigenti dell’economia privata e negli apparati burocratici statali. Per il resto, le differenze economiche tra uomini e donne si spiegano in sostanza con la scelta della maternità. Nel mio libro perseguo una svolta teorica rivoluzionaria: definisco donna l’essere umano che (escludendo casi di sterilità accidentale) può portare in grembo un figlio. Lo so, è molto rischioso affermare una cosa del genere oggi. Anzi, forse è proprio rivoluzionario (ride, ndr). Oggi le donne hanno accesso a tutti i problemi degli uomini, e inoltre continuano a dover scegliere tra carriera e figli, e questo basta a spiegare il sussistere di un predominio maschile. Oltretutto, per gli uomini che hanno perso buona parte della capacità decisionale in famiglia, il mondo del lavoro diventa sempre più importante. Qualsiasi altro dibattito pseudoscientifico riguardante una differenza genetica è inopportuno».
Ciò significa che secondo lei il patriarcato è scomparso in Occidente?
«Non è scomparso: non è mai esistito. Che cosa significa patriarcato? Preferisco parlare di un sistema di “patri-dominio universale”, vale a dire una posizione leggermente superiore dell’uomo, in particolare nelle attività di gestione della collettività. Tuttavia, l’intensità di questo predominio maschile è talmente variabile in funzione della geografia e della storia che parlare di patriarcato per evocare la situazione delle donne di Kabul e delle donne dell’area parigina non ha alcun senso dal punto di vista di un antropologo. Per quanto concerne l’Occidente in senso stretto, la Francia, il mondo anglo-americano e la Scandinavia, la trasformazione patrilineare, partita dal cuore dell’Eurasia, che ha peggiorato lo status delle donne nel corso della storia, non ha avuto luogo. O è rimasta a uno stadio embrionale. Spesso si crede che, quanto più si risale indietro nei tempi, tanto più le donne fossero oppresse. Tuttavia, non è assolutamente vero. Ancora prima della rivoluzione degli ultimi settant’anni, gli occidentali erano molto vicini nelle loro usanze ai cacciatori-raccoglitori presso i quali lo status delle donne era assai elevato».
A proposito, che cosa ci insegna lo studio dei cacciatori-raccoglitori e in cosa differisce dalla consueta narrazione femminista?
«L’ideologia del “femminismo della terza ondata”, dominante nel dibattito pubblico, ha deformato la storia dei rapporti tra i sessi. Esaminare i cacciatori-raccoglitori significa lavorare su 100mila-300mila anni, il grosso della storia del genere umano. La raccolta in generale è un’attività femminile, che può essere praticata anche dagli uomini, mentre la caccia è un universo esclusivamente maschile. I prodotti della caccia sono sempre divisi nel gruppo, mentre i prodotti della raccolta nel nucleo famigliare. Presso i cacciatori-raccoglitori, le donne sono portatrici di un elemento di individualismo familiare, mentre gli uomini sono responsabili di ciò che è collettivo. Questo non significa assolutamente maggiore altruismo: collettiva è l’organizzazione delle grandi opere, ma anche la guerra».
È per questo, secondo lei, che l’emancipazione femminile va collegata al tracollo delle convinzioni collettive e al collasso dello Stato Nazione?
«Il difetto dell’ideologia consiste nel credere che nella società si verifichino fenomeni in modo inaspettato e senza essere collegati tra loro. Da un lato ci sarebbe l’emancipazione femminile, che è un bene. Dall’altro il crollo delle industrie, che è un problema. Il collasso delle convinzioni collettive è un bene se si pensa che non si deve più partire in guerra, ma è negativo se non si può più agire come nazione sul piano economico. I due grandi movimenti delle nostre società moderne sono l’emancipazione femminile e il fallimento del senso di collettività. Io cerco di dimostrare che non può non esserci un rapporto tra le due cose».
Lei dice che l’emancipazione femminile comporta un prezzo da pagare: rimpiange il passato?
«No, assolutamente. Benedico la rivoluzione sessuale. L’emancipazione femminile ha permesso di porre fine all’omofobia, un rilassamento dei costumi. Solo che questo ha un costo. L’emancipazione e l’accesso delle donne all’istruzione superiore hanno accelerato la terziarizzazione e, di conseguenza, il crollo delle attività industriali. Risultato? Ci troviamo con Paesi femministi terziarizzati e consumatori che delocalizzano la loro produzione nei Paesi dove ci sono ancora un’industria e una forma di patri-dominio, dall’Europa dell’Est all’Asia. I popoli in Occidente sono totalmente dipendenti dal lavoro di quelli dell’Est, anche se li insultano per i loro atteggiamenti culturali retrogradi: delocalizzano le fabbriche, pur volendo esportare le loro usanze avanzate. Si deve scegliere!».
La lotta di classe è stata soppiantata dalla lotta dei sessi?
«Il femminismo della prima ora, quello dei diritti civili che nasceva dagli ambienti borghesi, difendeva tutte le donne. Altrettanto è accaduto con la seconda ondata della rivoluzione sessuale. La terza ondata del femminismo antagonista, invece, non difende tutte le donne, è un conflitto di classe tra le donne (e i loro coniugi) delle classi medie e uno strato di patri-dominio delle classi alte. L’ideologia di genere è un’ideologia tipica della piccola borghesia, nata dalle donne della classe media del mondo accademico che abbracciano con entusiasmo il concetto di intersezionalità. Il femminismo antagonista è un’ideologia nel senso più forte del termine, nel senso che non è vissuto: le classi che promuovevano la lotta contro il predominio maschile non lo subiscono. La tendenza attuale nelle classi medie istruite è la stabilizzazione della coppia, spesso ipogamica (la donna è più istruita del coniuge), il doppio stipendio, l’imperativo della sopravvivenza economica in stile cacciatore-raccoglitore. Per le donne delle classi popolari, dove si trova la stragrande maggioranza delle famiglie monoparentali, la visione antagonista del femminismo costituisce un aggravio delle condizioni di vita. La coppia è un sistema elementare di aiuto vicendevole. La sua funzione originale è la sopravvivenza. La cosa più impellente non è l’emancipazione delle donne, che c’è già stata, ma una nuova valorizzazione dell’aiuto all’interno della coppia. E il sentimento collettivo. Entrambi stanno crollando».
Lei scrive: “Per secoli l’Occidente cristiano ha considerato la sessualità come il male peggiore dell’anima. Ecco che, adesso, la considera l’essenza dell’anima.” L’ossessione Lgbt per l’orientamento sessuale sarebbe una conseguenza del cristianesimo?
«L’Occidente cristiano non capisce la sua stessa storia. Il cristianesimo si distingue in rapporto alle altre religioni per la sua ossessione per la sessualità, equiparata al male. Ciò è ancora più vero nel protestantesimo. La rivoluzione sessuale e la rivoluzione per la libertà sono state forme di rifiuto violento di questo retaggio. E questo rifiuto ha prodotto un’ossessione sessuale, perlopiù nell’universo anglo-americano. Il passaggio dall’omofobia al fenomeno gay – vale a dire dal rifiuto della sessualità alla sua centralità nell’identità sociale – è tipicamente cristiano. Definirsi politicamente e socialmente attraverso il proprio orientamento sessuale implica un’alta considerazione della sessualità, fenomeno tipicamente occidentale». © 2022, Le Figaro. Traduzione di Anna Bissanti
A Todd risponde una femminista storica come Ida Dominijanni, ribadendo che molti passi avanti sono stati fatti, ma tanto resta da fare. E spiegando perché la fine del patriarcato porterà con sé alcuni pericoli
di Ida Dominijanni
Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito”. Cominciava con quest’annuncio eclatante e impertinente, nel 1996, un testo della Libreria delle donne di Milano intitolato È accaduto non per caso. Quell’annuncio fece scandalo, anche all’interno del femminismo. Si era appena conclusa la Conferenza mondiale di Pechino sui diritti delle donne, dove s’era visto quanta strada era stata fatta ma anche quanta ne restava da fare per realizzare l’obiettivo dell’empowerment femminile: come si poteva sostenere che il patriarcato fosse finito?
Le autrici di quel testo però non erano né pazze né ingenue. Sapevano benissimo che di discriminazioni contro le donne il mondo era ancora pieno; ma proprio nell’andamento della Conferenza vedevano, al di là delle rivendicazioni per i diritti ancora mancanti, un salto di indipendenza femminile dalle misure maschili, che era il portato più autentico del femminismo degli anni Settanta. Fine del credito femminile all’egemonia del sesso forte. E dunque, fine del patriarcato come sistema di dominio degli uomini basato sul consenso, o sul silenzio-assenso, delle donne.
Non per questo c’era da illudersi che per le donne la strada sarebbe stata da allora in poi in discesa. Al contrario, “la fine del patriarcato non è e non sarà una cosa da ridere”, perché porta con sé due pericoli. Primo, che insieme con il patriarcato crollino le strutture della vita associata che ad esso sono storicamente connesse; secondo, che la virilità possa reagire in modo violento alla perdita del controllo sul corpo femminile.
Entrambi questi pericoli si sono in effetti realizzati. Ma prima di tornare su questo bisogna fare una precisazione. Dire che il patriarcato può finire (a differenza di molto pensiero strutturalista novecentesco, che lo considera una struttura immodificabile della storia umana), e che anzi sta finendo, è cosa molto diversa dal sostenere, come fa nel testo qui accanto Emmanuel Todd, che non sia mai esistito, quantomeno in Occidente. Il patriarcato è esistito eccome, e contrassegna la modernità occidentale stringendo un sodalizio strettissimo con le istituzioni della politica moderna. Com’era chiaro ai classici del pensiero politico seicentesco, la sovranità dello Stato prende forma nel calco di quella del pater familias. E com’era ancor più chiaro al Freud di Totem e tabù, il contratto sociale moderno si stipula e si rinnova ripetendo il rito edipico della congiura tra i fratelli che uccidono il padre e se ne spartiscono l’eredità, escludendo le donne dalla linea di trasmissione maschile del potere. Sotto il contratto sociale, per dirlo nei termini della filosofa femminista Carole Pateman, vige un contratto sessuale: il primo regola l’uguaglianza degli uomini nella sfera pubblica, il secondo regola il dominio degli uomini sulle donne nella sfera privata. Tutta la costruzione dell’edificio politico moderno resta condizionata da questa originaria impronta patriarcale.
Ciò che accade con il femminismo novecentesco è che questo dispositivo salta: liberandosi dal controllo maschile sulla riproduzione e facendo irruzione nella sfera pubblica le donne destabilizzano la costruzione socio-politico patriarcale nelle sue fondamenta. Si apre una crisi che non si può chiudere con l’inclusione delle donne nell’ordine precedente, perché – non lo si ripeterà mai abbastanza – il femminismo non è portatore solo di un’istanza di uguaglianza fra uomini e donne, ma anche e soprattutto di un’affermazione di differenza femminile dai valori maschili dominanti, nel privato e nel pubblico; richiede quindi una reinvenzione del patto sociale. E qui sta la sua matrice sovversiva che si tenta costantemente di ridurre.
Il sisma scuote le società democratiche occidentali e non solo: il conflitto fra i sessi riverbera dal privato al pubblico e viceversa, e la crisi del patriarcato riverbera sulla crisi dell’ordine politico e sociale. Ne è riprova il fatto che nessun conflitto geopolitico degli ultimi decenni, dalle guerre nella ex Jugoslavia al ventennio della war on terror combattuta dall’Occidente sotto l’insegna strumentale della liberazione delle donne dal patriarcato islamico, è comprensibile senza intrecciare la variabile del conflitto fra i sessi alle altre variabili in gioco. Ragion per cui non è affatto insensato, come Todd sostiene, paragonare la situazione delle donne (e degli uomini) di Kabul a quella delle donne (e degli uomini) di Parigi, non per equipararle, ma per capire come quella variabile giochi in differenti contesti.
Sia chiaro: quando si dice che la crisi, se non la fine, del patriarcato scuote il mondo contemporaneo non lo si fa in nome di un’ennesima ideologia progressista della storia. Le magnifiche sorti delle rivoluzioni sono alle nostre spalle, e non tornano per la rivoluzione femminista. Realizzare che il patriarcato non fa più ordine significa anche accettare che la sua fine genera inevitabilmente un certo tasso di disordine. Il punto è come leggere questo disordine, se con uno sguardo malinconico o con gli occhi aperti alle potenzialità liberatorie di cui è gravido.
Tra queste, al primo posto c’è la libertà di decidere della propria esistenza che le donne continuano a guadagnare, al di là e al di qua degli obiettivi paritari conseguiti e dei soffitti di cristallo più o meno infranti. C’è la tendenza delle adolescenti, evidenziata da un’acuta inchiesta dell’Economist, a fare riferimento alla bussola delle loro simili piuttosto che alle aspettative dei loro coetanei maschi per orientarsi nelle scelte di vita.
C’è una crisi della virilità tradizionale, con il rifiuto di molti uomini di obbedire agli imperativi di quel “maschilismo tossico” che Jane Campion demolisce nel suo ultimo film pluricandidato agli Oscar. Ci sono lo sventagliamento degli orientamenti sessuali, l’abbandono degli stereotipi di genere e il rifiuto dell’eterosessualità obbligatoria che abbiamo visto persino sul palco dell’Ariston di Sanremo, e che sia pure con qualche caduta identitaria e vittimistica nutrono l’agenda libertaria del femminismo Lgbtq+ di terza generazione. E c’è la ricerca diffusa di forme di vita individuali e collettive più libere e più solidali di quelle in precedenza “ordinate” dal patriarcato, che lasciano intravedere la possibilità di reinventare la politica al di là dell’estenuante crisi delle sue modalità tradizionali.
Dall’altra parte, e contemporaneamente, ci sono i contraccolpi regressivi della crisi del patriarcato. C’è la reazione violenta alla libertà femminile di una virilità detronizzata e depotenziata, che di fronte al no di una donna preferisce stuprarla o ucciderla piuttosto che accettarne il rifiuto. C’è l’eclissi dell’autorità paterna – “l’evaporazione del padre”, come la chiama la psicoanalisi lacaniana – che riverbera sulla crisi di tutte le autorità costituite, da quelle politiche a quelle intellettuali e scientifiche, mentre l’autorità femminile stenta a essere riconosciuta.
C’è il ritorno degli spettri di un passato che nella realtà non può tornare, come accade nei movimenti sovranisti che alla nostalgia della sovranità statuale perduta uniscono il rimpianto della supremazia dell’io maschile, bianco e occidentale. Sono tutte sfide aperte, che ci ricordano che le conquiste del femminismo non sono mai definitive, che le sue scommesse vanno continuamente rilanciate e che la libertà femminile va sempre rimessa al mondo. Tutto si può dire però, tranne che si stesse meglio quando si stava peggio.
PROGETTO D'ARTISTA
In questo articolo il progetto fotografico dell’artista americana Nancy Grace Horton, che indaga il nuovo femminismo e il ruolo delle donne, studiandone la rappresentazione nella cultura popolare e sui mass media. «Mi ispiro al cinema, alla televisione, alle riviste e alle mie esperienze personali», racconta Horton. «L’obiettivo è mettere lo spettatore a confronto con i suoi preconcetti sulla presenza femminile all’interno della nostra società».
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