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L’altra faccia degli allenatori, i guru del pallone

C’è chi pensa che il calcio sia una cosa semplice e chi (forse) si complica la vita cercando spiegazioni filosofiche al 4-3-3 o al pressing alto. Ma una cosa è certa, oggi l’allenatore delle squadre di pallone non è semplicemente chi sceglie i giocatori da mandare in campo assegnando le maglie dall’uno all’undici – piccolo momento amarcord – ma una sorta di santone, un “guru”, uno che magari ha studiato Economia e Commercio o ha persino insegnato all’Università. Insomma, sembrano definitivamente tramontati i tempi in cui Michel Platini, con l’ironia al vetriolo che l’ha sempre contraddistinto, ricordava di non aver mai avuto da piccolo un album degli allenatori, bensì solo quello dei calciatori.

Ecco perché alla fine del 2019, quando ancora era possibile riunirsi, assembrarsi, addirittura scambiarsi una stretta di mano, i giornalisti Marco Ansaldo e Renzo Parodi decisero di organizzare a Genova un ciclo di incontri con allenatori di calcio non proprio banali. Uno, Marcello Lippi, ha vinto tutto, Mondiali compresi. Un altro, Alberto Zaccheroni, ha continuato a pensare da dilettante vincendo persino scudetti sulla panchina del “nemico” Silvio Berlusconi. Il terzo, Roberto Mancini, oltre a titoli da giocatore e “mister”, è l’attuale Ct della Nazionale e a Genova – sponda blucerchiata – è considerato una specie di semidio.

I tre incontri, durante i quali gli allenatori sono stati “interrogati” non da giornalisti sportivi ma da filosofi, politici, intellettuali, sono stati riassunti in un bel libro intitolato “Allenatori” (Il Canneto Editore) firmato proprio da Marco Ansaldo con la postfazione di Renzo Parodi e una splendida foto in copertina: quella di Pier Paolo Pasolini, poeta con la passione del pallone. Lui, friulano ma grande tifoso del Bologna, amava ripetere che i pomeriggi passati a giocare sono stati i più belli della sua vita: “Mi viene un nodo alla gola quando ci penso” confidò in una intervista.

Oggi il dibattito – spiega Ansaldo nel prologo – è tutto incentrato nella sfida tra “giochisti” dediti a cercare nella bellezza e nella perfezione delle combinazioni una strada che porti alla vittoria, e “risultatisti”, coloro che in maniera convinta e spietata perseguono un trionfo che possa anche esulare dalla piacevolezza del match. In una parola: meglio Sarri o Allegri? Il fraseggio di Guardiola o la concretezza del Cholo Simeone? Il calcio spumeggiante di Zeman o quello assai più redditizio (almeno in quanto a titoli vinti) di Antonio Conte? Ma, soprattutto, si può allenare studiando solo gli avversari e trovando le mosse giuste per bloccarli oppure – come disse una volta Jose Mourinho ai cronisti – bisogna anche aver letto Hegel o la critica della Ragion pura di Kant?

Ok, l’ideale sarebbe vincere giocando bene. Ma si vince “soltanto” giocando bene? Per Marcello Lippi è tutto molto semplice: “E’ evidente che più si gioca bene a calcio e più aumentano le probabilità di fare bei risultati, ma se non si pensa a tutte le fasi del gioco non si va da nessuna parte. Insomma, se l’atomo è la squadra composta da particelle che si muovono con genialità, è compito dell’allenatore mettere questa genialità al servizio del collettivo. Non ci deve essere la ricerca spasmodica della bellezza, bisogna invece basarsi sulla concretezza”. Difficile dargli torto, visto che con questa filosofia ha vinto 5 scudetti con la Juventus, tre in Cina – “Ci sono andato per i soldi, poi è stata anche una bellissima esperienza” – e quel campionato del mondo del 2006 che resterà sempre nella memoria di tutti i tifosi azzurri.

Quanto a Zaccheroni, un modesto calciatore di quarta serie che in panchina ha fatto le fortune dell’Udinese prima, del Milan poi e persino del Giappone – “Sono stato ricevuto dall’imperatore che mi ha persino dato la mano, da quelle parti non si usa” – non è tanto questa la diatriba da sciogliere. Giocar bene, giocar male è secondario: “Tanto noi allenatori siamo giudicati solo dai risultati e se non arrivano ci cacciano”, spiega ai suoi interlocutori. “E allora, le mie squadre non giocavano per vincere ma per giocare meglio degli altri. E questo perché il risultato è la somma delle prestazioni dei giocatori, e più i calciatori giocano bene e fanno squadra, più è possibile vincere”.

Infine Mancini, uno che già da ragazzino, quando incantava a Bologna e poi a Genova e Roma (sponde Sampdoria e Lazio) aveva un gusto spiccato per l’estetica. Con lui, tra migliaia di ricordi, si finisce per parlare del carattere dei giocatori, spesso sopra le righe: e il pensiero vola, solo per fare qualche esempio, a gente come Balotelli o Gascoigne, immensi fuoriclasse che nella vita sono stati travolti dai loro colpi di testa (non certo quelli in campo, ma fuori). “Anche io non ero certo un modello – scherza Mancini – e forse anche per questo continuo a preferire i giocatori scapestrati a quelli troppo per bene. Io li posso capire”. E il saluto finale: “Ho vinto tanto, ma un Europeo o un Mondiale sulla panchina dell’Italia sarebbe la gratificazione più grande”. Che poi è l’augurio che ci facciamo un po’ tutti.

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