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Hanno tutti ragione | I partiti hanno fallito ma non è una buona ragione per abolirli

Il fallimento della politica non può diventare il fallimento della democrazia. Provo a spiegarmi, perché penso che questo sia uno snodo fondamentale della crisi di governo. Se si siamo arrivati a Mario Draghi, messo in campo con grande tempismo da Sergio Mattarella, è certamente perché i partiti hanno fallito. Peggio. Hanno dato pessima prova di sé, del proprio ruolo, della responsabilità nei confronti del Paese. Nei primi tre anni di legislatura si sono susseguiti due governi nati da accordi precari e improvvisati: entrambi, ciascuno a modo proprio, si sono arenati non solo per le fisiologiche diversità all'interno della maggioranza, ma anche perché ha quasi sempre prevalso un corto interesse di bottega sulla volontà (talvolta anche la capacità) di risolvere i problemi con la mediazione e i buoni compromessi. Veti, capricci, ultimatum veri e finti, nel senso di utili solo a titillare le rispettive claque. Uno strazio che è finito, in fondo, come altro non poteva: la dichiarazione di bancarotta politica.

Dopo aver sperimentato invano due maggioranze di segno opposto, al presidente della Repubblica non restava che puntare su una formula non politica. Bene. Possono ora quei partiti che hanno portato a questo punto impancarsi a porre nuovi veti e condizioni senza le quali non? La risposta è, credo, unanime. Non possono.

Qui però arriva il punto sul quale è opportuno fissare paletti saldi. Si può pretendere dai partiti che rinuncino a esercitare del tutto il ruolo che gli elettori hanno loro conferito con il mandato elettorale? Stavolta la risposta di certo non è unanime. Ma, a mio giudizio, è sbagliata quella di chi sostiene che i partiti debbano partecipare alla nascita di un governo senza chiedere lumi sui programmi e sull'agenda. Veti no. Ultimatum men che meno. Ma non si può bollare come un capriccio il fatto che una forza politica voglia assicuarsi che un esecutivo in partenza non abbia in animo di produrre atti e indirizzi in conflitto con il mandato elettorale che quella forza ha ricevuto. Si chiama democrazia parlamentare, e per quanto non abbia dato buona prova in questo frangente, non è una ragione per sospenderne le prerogative.

Lo sa bene Mario Draghi, che non a caso dopo aver ricevuto l'incarico ha subito ricordato la centralità del Parlamento come espressione della volontà popolare. Il "governo dei migliori" – espressione che in sé piace a chiunque, ovvio – o l'unità nazionale non possono essere in alternativa alla democrazia dei partiti e del Parlamento. Ne devono rimanere espressione. Altrimenti il passaggio successivo è chiedere la loro abolizione. O magari quella del suffragio universale. Forse una punizione un po' severa persino per i partiti che ci troviamo in sorte.

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