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Ponte Morandi nato malato. Strangolato dai cavi marci

Genova. Il "tumore". Ormai gli avvocati della megainchiesta sul crollo del ponte Morandi lo chiamano così. Il "tumore" è il groviglio di cavi d'acciaio che nel 1965 venne piazzato a reggere la pila 9 del viadotto sul Polcevera, e che fin da subito si trovò immerso nell'acqua, negli acidi, nella salsedine: e cominciò a incancrenire come una metastasi. Sono espressioni crude. Ma quella andata in scena in questi giorni nel tendone del tribunale genovese sembra davvero una autopsia. Sul tavolo c'è un cadavere. Non di un uomo: il gigantesco cadavere del ponte crollato il 14 agosto 2018. Sezionato, analizzato.

Come tutti i cadaveri, anche quello del Morandi parla. Il tumore è lì, sul tavolo dei periti: il "reperto 132", il pezzo della pila 9, lato sud, che alle 11,36 cede di schianto. Su questo ormai sono tutti d'accordo, consulenti dell'accusa e della difesa. Ma come nei processi per colpe mediche, dove si parla di esseri umani lasciati morire senza cure o con le cure sbagliate, la domanda cruciale è: il malato si poteva salvare? I sintomi si coglievano, erano affrontabili? Ed è qui che le versioni divergono, e la battaglia dei settantuno indagati – con i pubblici ministeri, e poi tra di loro, gli uni contro gli altri – si annuncia aspra e interminabile, col rischio che l'immane complessità della materia porti tutto avanti nel tempo.

Anche per questo, le famiglie di trentanove dei quarantatré morti hanno scelto di mollare, prendere i soldi, uscire per sempre dal tormento senza fine delle sentenze giuste o sbagliate, dei ricorsi, delle prescrizioni. A combattere sono rimasti in tre. Marcello Bellasio, che perse due figli; Nadia e Egle Possetti, che persero la sorella; e il papà di Giovanni Battiloro. A loro, spiegano, i milioni di Autostrade non interessano. Vogliono capire perché, per colpa di chi.

Non si sono accontentati della perizia disposta dal giudice, quella discussa per tre giorni questa settimana, e su cui dal 18 febbraio avvocati e periti torneranno a litigare. Bellasio e le Possetti hanno voluto un loro consulente, uno di cui si fidassero. Si chiama Paolo Rugarli, è un ingegnere milanese, ha depositato 373 pagine con la sua risposta alle domande del giudice. Ed è accaduta una cosa singolare. Sulla ricostruzione di Rugarli – una ricostruzione impietosa, di cui qua accanto si riportano i passaggi principali – si sono ritrovati in buona parte anche gli imputati legati ad Atlantia ovvero ai Benetton, i manager entrati in scena con la privatizzazione di Autostrade nel 1999, a partire da Giovanni Castellucci, prima amministratore e poi presidente. Anche con loro, con le omissioni per ignavia o per soldi della gestione privata, la ricostruzione di Rugarli ha la mano pesante. Ma ha un pregio: guarda anche all'indietro, riavvolge il filo della tragedia fino agli esordi del ponte, alla progettazione, alla costruzione, ai segnali d'allarme iniziati prima ancora che sui 1.182 metri progettati dal grande Enrico Morandi passasse la prima auto. E sugli anni successivi, gli anni dell'Anas, delle autostrade pubbliche, del parastato sprecone e miope. Il ponte, dice Rugarli, nacque già malato. E la sua morte, cinquant'anni dopo, fu la conseguenza inevitabile di una serie di colpe imperdonabili da parte praticamente di chiunque, in un ruolo o nell'altro, vi abbia messo le mani.

Anche la Procura di Genova ha, sulla carta, nel mirino quel periodo. Ma Castellucci e gli altri sono convinti (e gli indizi ci sono) che alla fine rischiano di essere gli unici chiamati a pagare. Non ci stanno. E la mano decisiva forse gli arriverà dal perito delle loro vittime.

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