Cari lettori e care lettrici, con l'annuncio delle candidature ai Golden Globe si è aperta la stagione della caccia ai premi in un contesto che è difficle pensare più inusuale. Gli Oscar numero 92 di un anno fa, il 9 febbraio 2020, sono stati uno degli ultimi grandi eventi pubblici prima della pandemia, con lo show, le canzoni, i discorsi, le feste. Non possiamo dimenticarci, pur con riuscite decisamente diverse, dei David di Donatello consegnati in streaming, con qualche bel guizzo di umanità, figli, sorelle e fidanzati a spuntare dai salotti dei candidati per abbracciare e festeggiare i vincitori casalinghi, e i noiosissimi European Film Awards (gli Oscar europei). Sicuramente alla cerimonia dei Golden Globe il 28 febbraio, con le conduttrici Amy Poehler e Tina Fey divise tra Los Angeles – il tradizionale Beverly Hilton – e New York, la cima del Rockfeller center – ma anche più tardi, nella notte degli Oscar al Dolby Theatre il 25 aprile, non accadrà niente del genere.
Intanto però ci prepariamo con i racconti da Hollywood di Silvia Bizio, una riflessione sui grandi cambiamenti che ci sono stati quest'anno, rileggiamo la bella intervista fatta a Sophia Loren da Natalia Aspesi, chiacchieriamo con uno dei protagonisti di One night in Miami e vi indichiamo un film che potrebbe essere la sorpresa di quest'anno. Guardiamo indietro senza troppa nostalgia alla prima cerimonia degli Oscar, che durò solo 15 minuti, e chiudiamo con un sorriso grazie a Sacha Baron Cohen. Ora però vi chiediamo cosa ne pensate, di questa stagione così diversa da tutte, delle candidature ai Golden, delle chance dell'Italia e di chi vorreste che vincesse? Scrivetecelo a a.finos@repubblica.it
Buona lettura e buone visioni
Arianna Finos e Chiara Ugolini
Un'occasione per cambiare Hollywood e i premi
Anche se per quel periodo le proiezioni sulla pandemia fossero ottimistiche, l’anno sarà irriconoscibile sul fronte dei candidati: il Festival di Cannes, in cui era stato presentato lo scorso anno Parasite di Bong Joon Ho, ha saltato l’edizione 2020, non c’è stato Telluride, anche se Venezia e Toronto hanno tenuto, con titoli destinati con molte probabilità a dominare la stagione a partire dal Leone d'oro Nomandland di Chloe Zhao, candidata ai Golden per film e regia e in prima fila in vista dei Sag, i premi assegnati dal sindacato attori, ma anche Una notte a Miami di Regina King, e altri (qualcuno, notevole, visto alla Festa di Roma), siamo lontanissimi dai numeri e dai pronostici che fiorivano per mesi sulle testate e sui siti di settore. Anche volendo includere i titoli che hanno trovato spazio sulle piattaforme, che per ovvi motivi stanno dominando nelle candidature, la selezione è molto più ristretta. E c'è chi spera, basta leggere il New York Times, che la situazione sia occasione per una riforma più che mai necessaria. A parte le belle vittorie di Parasite, Moolight e del trio messicano Del Toro, Cuaron e Inarritu, e gli sforzi sul fronte dell’inclusione c’è un problema oggettivo nella macchina dell’Academy fatto di ascolti in calo, scollamento rispetto al botteghino, conduttori troppo provocatori o troppo blandi. Il tentativo di istituire un premio del pubblico legato agli incassi è stato subito archiviato malamente. La teoria, suggestiva del critico del New York Times A.O. Scott, è che invece di aggrapparsi al rassicurante rito del cinema secondo i nostalgici canoni hollywoodiani, l'Academy dovrebbe cogliere la vittoria di Parasite come un presagio e spalancare occhi e orecchie sulla situazione reale del cinema che non ha più al centro Los Angeles ma si è decentrata nel mondo, sulle piattaforme: quindi aprire sia sul fronte delle candidature, a livello mondiale e delle categorie, ma anche e soprattutto sul fronte degli elettori, che devono diventare una piattaforma molto più vasta e variegata. Hollywood e le sue major perdono centralità fondendosi o trasformandosi, basta guardare a Disney+ e HBOMax che ormai considerano i film come uno dei tanti contenuti delle piattaforme, come succede per Netflix, Amazon e Apple.
Hollywood fin dalla sua nascita è stata rifugio e crocevia di talenti dell'America centrale e dall'Europa centrale "il Dolby Theatre non è un tempio. È un bazar", scrive Scott, e quindi gli Oscar più che sulla nostalgia devono puntare sull'anarchia, essere luogo di circolazione di idee e informazioni. Per Scott: "Abbiamo avuto la favola. Abbiamo bisogno del disastro del treno". Il dato eclatante è la presenza di tre cineaste nella cinquina dei registi candidati ai Golden Globe, ma guardando alla variegata compagine dei candidati 2021 ai premi della Hollywood Foreign Press si vedono volti emergenti, sorprese… qualcuna spiazzante.
Ai Golden Globe tra snobbati e qualche sorpresa
Tra i protagonisti della cerimonia ci sono le piattaforme. Battono bandiera Netflix due dei film che guidano le nomination: sono Mank di David Fincher sulla sceneggiatura di Quarto potere, sei candidature (leggi la recensione di Natalia Aspesi), e Il Processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin sul processo seguito alla proteste alla convention democratica del 1968 a San Francisco. Non è purtroppo in corsa la nostra Sophia Loren, anche se il film del figlio Edoardo Ponti è tra i film non in lingua inglese, come pure Laura Pausini per la canzone, è in buona compagnia perché è fuori dalla lista anche la divina Meryl Streep, che aveva due possibilità di essere candidata, The Prom e Let them all talk. Tra le sorprese c’è invece la candidatura di James Corden, proprio per quel musical che è stato piuttosto strapazzato dalla critica. Regina King è stata nominata per la regia, ma non per il film Una notte a Miami, come pure Spike Lee Da 5 bloods che poteva concorrere anche con il protagonista Delroy Lindo, davvero ottimo, e Chadwick Boseman, candidato postumo per Ma Rainey's black bottom, ma che avrebbe potuto avere una doppia nomination. Fuori dalle nomination anche Zandaya per il film in bianco e nero Malcolm e Marie, al fianco di John David Washington: belle interpretazioni anche se la sceneggiatura non convince dle tutto. Malumori anche per Minari con Steven Yeun, la HFPA ha messo i film tra quelli in lingua non inglese, anche se è una produzione americana. Sorpresa e scetticismo per Music, che ha visto candidate Kate Hudson e Sia, la regista del musical, che però pochissimi hanno visto o ne hanno sentito parlare. Stupisce la candidatura di Jared Leto per Fino all’ultimo indizio, thriller appena sbarcato in America su HBOmax, in cui interpreta un uomo sospettato di essere un serial killer. Qualche perplessità infine anche per Hamilton, per la natura di trasposizione dello spettacolo di Broadway su schermo, con il fantastico Lin-Manuel Miranda.
Lo champagne arriva col fattorino e il brindisi quest'anno è su Zoom ma… Show must go on
da Los Angeles, Silvia Bizio
Un fattorino lascia sulla porta di casa una scatola nera con un fiocco rosso contrassegnata dall'enorme e inconfondibile N di Netflix. Dentro la scatola una bottiglia di champagne di ottima marca e confezioni di popcorn e cioccolatini. Sotto il doppio scomparto – come fosse una valigia da contrabbandiere – è ripiegata una vestaglia nera. E il biglietto di Ted Sarandos – direttore creativo di Netflix – che invita gli ospiti a unirsi al suo brindisi annuale di fine anno, generalmente celebrato nella sua villa di Los Angeles in compagnia degli attori e registi della sua Scuderia – e selezionati membri della stampa – per festeggiare la stagione dei premi, dai Golden Globes agli Oscar. Un anno fa chiacchieravamo nel giardino di Sarandos con Robert De
Niro, Martin Scorsese, Al Pacino, Olivia Colman e Quincy Jones che teneva corte sul divano. Quest'anno il brindisi è stato virtuale, su un link privato di Zoom: ergo lo champagne e la vestaglia per farlo in comodità ognuno da casa propria. Pochi giorni dopo giungeva una seconda scatola con champagne e popcorn, questa volta dall'American Cinematheque, per assistere – sempre via Zoom privato – alla cerimonia di celebrazione dell'"honoree" dell’anno, George Clooney, che si è collegato dalla saletta di proiezione della sua villa di Los Angeles, di fronte a quella tenda marrone che nasconde lo schermo che oramai abbiamo imparato a riconoscere.
È così che questa pandemia globale ci costringe a celebrare, per la stampa e gli ospiti che generalmente riempirebbero le sale degli hotel di lusso o delle ville dei grandi executive di Hollywood che ogni anno fanno a gara a chi elargisce più ostriche, campagne e aragoste per festeggiare le proprie candidature – Oscar, Golden Globes, DGA, SAG, Emmy o Grammy che siano. Un anno fa le chiacchere si sarebbero rivolte sui tappeti rossi in arrivo, su chi avrebbe indossato cosa, sulle probabilità di vittoria di questo o quel candidato. Oggi i tacchi sono stati sostituiti da pantofole, di vestirsi a gala non se ne parla, niente corsa all'affitto delle limousine. Dopo circa 10 mesi di interviste condotte da noi giornalisti via Zoom con attori, attrici e registi in reclusione in giro per il mondo (e da almeno sei mesi a questa parte già impegnati sui set strettamente protocollati e sterilizzati), e con festival come quelli di Toronto e Sundance realizzati da lontano con biglietti – o per stampa a pagamenti – che consistono in sblocco di link per tre ore nell'arco di tempo designato dal programma, ecco che arrivano i tradizionali grandi premi annuali, che dagli Emmy dello scorso anno si svolgono senza pubblico, tutto via Zoom. Insomma, a dispetto della pandemia a Hollywood "the show must go on", e mentre ristoranti e negozi chiudono, non solo i set riaprono e i progetti (cinema o TV) si adattano alle misure anti-Covid, incorporando perfino la stessa tematica nella narrativa (soprattutto negli show medici, polizieschi e legali), ma distributori e piattaforme di streaming si sono ingegnati su come far arrivare i loro film al pubblico in lockdown. Da tempo eravamo abituati a chiedere link per vedere i film online invece di affrontare un’ora e mezza di traffico per andare dall’altra parte di Los Angeles per l'anteprima in questa o quella sala: ci sembrava un lusso poterla vedere dal proprio divano. Ora questa è diventata la norma. Rimarrà tale? Da un certo punto di vista non è mai stato così facile avere un'intervista: un attore o regista non deve spostarsi di casa, non deve prendere un volo nè sottoporsi a trucco e styling e giornate lontano da casa per fare interviste: ora basta – per alcuni, ma non sempre – un filo di trucco fai da te, uno sfondo che può andare dal neutrale al personale, davanti alle proprie librerie o quadri o piante – e voilà, da qualsiasi parte del mondo. Anche se per parlare con Los Angeles la metà di Hollywood che si è trasferita in Australia, dove non hanno mai circolato liberamente tanti attori in quella zona "Covid Free" (Sacha Baron Cohen e consorte, l'attrice Isla Fisher, o Nicole Kidman, tanto per citarne alcuni) si devono alzare ad ore impossibili del mattino per incontrarci nella zona oraria appropriata. Piccolo prezzo da pagare per evitare ore di volo, scomodi spostamenti e jet lag da fuso orario.
Il revival dei cinema "drive-in" – qui in America – sono stati un tentativo mai completamente realizzato, anzi fallito: il primo film ad alto profilo ad uscire nei drive-in era stato Tenet, il kolossal d'azione di Christopher Nolan, senza successo. Nemmeno Wonder Woman 84 ha insistito sui drive-in. Hanno tutti ripiegato sull'home streaming. E mentre il nuovo James Bond aspetta invece che riaprano i cinema per lanciarsi al pubblico, gli psicologi iniziano ad analizzare il nuovo fenomeno del Zoom fatigue, lo stress dell'incontrarsi sulle piattaforme online. Come per Sanremo, anche i Golden Globes e gli Oscar si svolgeranno senza pubblico. La diretta dei Golden Globe sulla NBC il 28 febbraio vedrà le due presentatrici, Tina Fey e Amy Poehler, separate sulle due coste: Tina Fey da New York (dalla Rainbow Room in cima al Rockefeller Center), e la Pohler dall'International Ballroom del Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills dove dove si sono sempre svolti i Golden Globe: ma stavolta invece dei 1.200 invitati tra celebrità e Vip ci saranno solo cameraman e tecnici. Niente feste né prima né dopo lo show di premiazione, niente champagne né i "gift lounge" che solitamente, prima dell'inizio, accolgono le celebrità – legittime o meno – per regalare loro montagne di cose, viaggi compresi in luoghi esotici. Le tartine e i brindisi che abbiamo sempre dato per scontato sono adesso soppiantate dai tamponi, e le code per accedere al tappeto rosso da quelle per accedere al vaccino. Ma lo show va avanti lo stesso.
Le speranze italiane tra Notturno e La vita davanti a sé
L'Italia nella stagione dei premi hollywodiani trova il suo spazio, anche grazie al fatto che corre con due film diversi nei due premi principali. Ai Golden Globe è candidato La vita davanti a sé di Edoardo Ponti che ha riportato la mamma ottantaseienne, la diva Sophia Loren, davanti alla macchina da presa per riraccontare la storia scritta da Romain Gary e che è già diventato un film da Oscar nel 1978. Niente nomination però per la signora Loren che è già stata premiata sette volte della Hollywood Foreign Press, l'ultima volta con il riconoscimento alla carriera, il Cecil B. Demille. Protagonista assoluta del film è Madame Rosa (leggete l'intervista che le ha fatto Natalia Aspesi), Loren naturalmente, un'anziana ex prostituta ebrea che ancora porta sulle braccia i segni del campo di concentramento di Auschwitz. In una Bari contemporanea ma un po' fuori dal tempo, si occupa dei figli delle prostitute del quartiere, il suo destino incrocia quello del piccolo Momo, un inquieto ragazzino senegalese. Ai Golden Globe ci sono anche Laura Pausini che che interpreta il brano Io sì (Seen) di Diane Warren, colonna sonora del film Netflix con Sophia Loren. E il regista che firma il film che batte bandiera francese, Due, l'italiano Filippo Meneghetti.
Tutt'altra situazione invece per la corsa agli Oscar dove l'Italia punta tutto su Notturno di Gianfranco Rosi. In quest'altra gara l'Italia partecipa (due volte) con il film girato in tre anni sui confini tra confini tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, luoghi di violenze e distruzione, ma mettendo in primo piano l'umanità che si risveglia ogni giorno. Due volte perché il titolo ambisce sia alla nomination come miglior documentario e sia come miglior "international film" (questa è la definizione scelta per quel che una volta si chiamava film straniero), ma il film non è "eleggibile" per i Golden Globe, che non hanno la categoria documentari e non prevedono che il film straniero sia appunto un film non fiction. Vedremo (il 15 marzo, le nomination) se Rosi riuscirà ad entrare in tutte e due le categorie.
Kingsley Ben-Adir: "Malcolm X ruolo della vita. Sono felicissimo per la nomination a Regina"
Chiacchieriamo al telefono da Londra con Kingsley Ben-Adir, che in One night in Miami, il debutto cinematografico di Regina King (3 nomination ai Golden Globe) interpreta Malcolm X nella storica serata in cui Cassius Clay divenne campione mondiale di pesi massimi e annunciò la sua conversione all'Islam.
Contento della candidatura di Regina King per la miglior regia?
"Non ne avevo idea, me lo sta dicendo lei. Meraviglioso, ne sono contentissimo. Più il film riceve attenzione meglio è, essere parte di questo viaggio con Regina è stupendo. Lavorare con lei a questo film è stato molto bello, le conversazioni tra Malcolm e Sam Cooke (Leslie Odom Jr. ugualmente candidato ai Golden Globe, ndr.) sono veramente il cuore del film".
Cosa ha significato per lei questo film?
"Prima di One night in Miami non avevo mai avuto una responsabilità così grande, un personaggio che si portava dietro un mondo interiore come Malcolm X e che conteneva moltissime storie. È stata un'opportunità incredibile, Malcolm per me è qualcosa di veramente diverso da tutto il resto che ho fatto. Interpretarlo mi ha coinvolto profondamente a livello spirituale ed è rimasto con me a lungo. Sicuramente fare One night in Miami ha cambiato il mio modo di entrare dentro un personaggio, prepararlo, dopo questo ruolo il lavoro non sarà più come prima".
È vero che ha avuto solo 12 giorni per prepararsi?
"È vero, sono arrivato nel progetto un po' all'ultimo perché qualcuno aveva rinunciato. Ho avuto più o meno quei giorni prima di cominciare ma poi la mia preparazione è durata per tutto il film, ho continuato a studiare. L'ho saputo poco prima di Natale e mi ci sono buttato a capofitto".
Il film ha iniziato il suo viaggio alla Mostra del cinema di Venezia
"Non sa quanto mi è dispiaciuto non poterci essere".
L'outsider da tenere d'occhio: 'Minari' una pianta sudcoreana cresciuta in Usa
Dopo il successo straordinario e irripetibile di Parasite lo scorso anno, primo film della Corea del Sud a vincere un Oscar e primo film tout court non in lingua inglese ad aggiudicarsi miglior film, tutti gli occhi sono puntati su questo piccolo film sudcoreano del regista Lee Isaac Chung, nato nel Colorado da genitori coreani: Minari. Il film, trionfatore al Sundance 2020, racconta la storia, in gran parte autobiografica, di un ragazzino che insieme ai genitori e la sorella si trasferiscono dalla California all'Arkansas per creare una fattoria. David, già nato negli Stati Uniti, si trova a condividere il tempo con la buffa ma affettuosa nonna, venuta apposta dalla Corea del Sud per occuparsi di lui e la sorella. Una nonna che non sa fare i biscotti ma gli insegna a giocare a carte e che ha portato dalla Corea una pianta misteriosa: il minari, semi coreani che mettono radici nell'ansa di un torrente dell'Arkansas.
La prima volta degli Oscar: 15 minuti per 5 dollari
La prima volta non si scorda mai. Soprattutto se stiamo parlando degli Academy Award, il premio più importante e prestigioso del mondo in campo cinematografico e soprattutto il più antico, venne assegnato la prima volta il 16 maggio 1929. L'immagine che è stata tramandata negli archivi fotografici ha un sapore da scena finale di Shining ma racconta bene che tipo di serata fu: una cena privata all’Hollywood Roosevelt Hotel di Los Angeles in cui il Presidente dell'AMPAS l'attore e produttore Douglas Fairbanks, marito della diva Mary Pickford condusse lo show. I biglietti per la serata costavano 5 dollari, 270 persone parteciparono e la cerimonia durò soltanto 15 minuti, nessuna suspence perché i riconoscimenti erano stati annunciati mesi prima, tra gli attori c'erano la giovanissima Janet Gaynor e Emil Jannings. I premi furono creati dal produttore Louis B. Mayer (talento produttivo ma padre padrone che ha rovinato più di una giovane stella) che, con il cinismo che lo contraddiceva, dichiarava: "Ho scoperto che il modo migliore per gestire i registi sia assegnare loro delle medaglie. Dando loro coppe e premi, si sarebbero ammazzati per produrre quello che volevo. Ecco il motivo per cui è stato creato l'Academy Award". La prima cerimonia fu l'unica a non essere diffusa su nessun mezzo, esistono poche foto e nessun filmato, dal 1930 venne mandata on onda sulla radio e filmata e dal 1953 trasmessa in tv.
Altre pagine: le nuove regole, i documentari e perché Hamilton corre ai Golden ma non agli Oscar
Grazie ad alcuni articoli dei colleghi americani approfondiamo una serie di questioni che possono sembrare tecniche ma non lo sono e avranno grandi ripercussioni sui premi di questa stagione. Innanzitutto le regole di inclusione (che vanno a creare vere e proprie quote) che sono state introdotte e anche molto criticate, secondo il New York Times però queste linee guida non sono poi così stringenti e qui vi spiega il perché. Sempre per farsi largo tra i regolamenti che differenziano i diversi premi ecco due riflessioni: la prima riguarda il perché il musical Hamilton, grande successo su Disney+, può concorrere ai Golden Globe e non agli Oscar, ce lo spiega l'Hollywood Reporter; la seconda invece ha a che fare con i documentari, che come sappiamo i Golden non prendono in considerazione e che invece gli Oscar celebrano con una loro categoria, ma non solo. Come spiega Variety un documentario può anche entrare direttamente nella selezione per il miglior film e quest'anno questo potrebbe accadere.
Happy ending: le tre volte di Sacha Baron Cohen. "Assumiamo Giuliani per le contestazioni"
Il comico Sacha Baron Cohen festeggia la sua tripletta ai Golden Globe su Instagram: tre nomination, due per il suo Borat 2 (sia come attore che come miglior commedia) e una come attore non protagonista nel film Il processo ai Chicago 7. Si dice sotto choc e umilmente grato delle candidature ma non si esime da piazzare la sua battuta politica. Assicura: "Sono onorato e nel caso non vincessimo niente, siamo pronti ad assumere Rudolph Giuliani e contestare i risultati". Il riferimento ovviamente è a Donald Trump…
Buona settimana e buone visioni
Arianna Finos e Chiara Ugolini
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