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L’addio di Copenaghen

La notizia è buona, tanto più che arriva in un periodo difficile. Il governo social-democratico danese ha messo una data di scadenza sul proprio petrolio. L’estrazione dai pozzi danesi nel mare del nord terminerà entro metà secolo. Inoltre, tutte le gare di appalto per l’esplorazione di nuovi pozzi sono cancellate. Una notizia rilevante, e una iniziativa sicuramente innovativa: servirà a convincere altri paesi?

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La transizione danese. Quando si pensa al petrolio, difficilmente si pensa al paese scandinavo. Eppure, la Danimarca estrae petrolio fin dai primi anni Settanta. Fra i paesi europei (che non includono Norvegia e Uk) è il primo per estrazione. Le 55 piattaforme estrattive si trovano nella parte danese del mare del Nord, e sono per la maggior parte operate dalla multinazionale francese Total. In tutto, estraggono circa centomila barili al giorno. Sembra un numero enorme, ma non è molto di più di quello che si produce in val d’Agri in Basilicata. La stessa Danimarca ne estraeva quattro volte tanto nei primi anni Duemila. Ad oggi, il petrolio conta per lo 0.5% dell’economia. Eppure il contributo per le casse dello stato, di circa 1 miliardo di euro all’anno, non è risibile. Lo Stato scandinavo lo ha amministrato con parsimonia, investendo nel welfare, e usandolo per ridurre il debito pubblico. Il governo istituito nel 2019 ha messo i temi ambientali al centro della propria politica: la Danimarca ha uno degli obiettivi di riduzione delle emissioni più ambizioso d’Europa. La società di stato dell’energia si è riconvertita, diventando il più grande produttore mondiale di eolico offshore. E l’eolico produce quasi la metà dell’elettricità del paese.

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Non è tutto oro (nero) quello che luccica. Per quanto l’esempio della Danimarca sia esemplare, e la rinuncia al petrolio unica nel suo genere, le conseguenze vanno ponderate. Anzitutto, la produzione danese di petrolio era diminuita negli ultimi anni. E ad ogni modo, proseguirà per altri trenta. Per questo l’attivista Greta Thunberg non ha dato la sua approvazione. Per contro, il governo danese ha citato contratti in essere che non possono essere revocati. Lo scontro chiarisce quanto sia complesso il mondo del petrolio, dove gli investimenti sono di lungo periodo e non facilmente re-indirizzabili. Inoltre, il petrolio danese è sono una goccia nel mare del petrolio Nordico. La Norvegia e il Regno Unito sono i veri giganti: ciascuno estrare dieci volte tanto la Danimarca. La stessa proporzione va applicata per arrivare ai grandi produttori mondiali: Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia.

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Guidare con l’esempio. Probabilmente, l’impatto maggiore della decisione danese è quello di creare un precedente. Altri paesi, inclusi i produttori come la Norvegia, sono sotto pressione. Per ora hanno scelto altre strade: ad esempio, incentivi per adozione di auto elettriche, così generosi che ormai si vendono solo quelle. O la richiesta di informazioni dettagliate sull’impatto ambientale delle imprese in cui investe il fondo norvegese, il più grande fondo sovrano del mondo, finanziato dai profitti del petrolio. Il precedente è però importante perché evidenzia la necessità di politiche che riducano le estrazioni di combustibili fossili. Al momento, le politiche climatiche – incluse quelle europee – si sono concentrate sull’incentivazione di alternative verdi o sulla tassazione delle emissioni di CO2. Questi strumenti sono fondamentali, ma se non accompagnati da strategie che vanno alla radice del problema possono rivelarsi solo parzialmente efficaci. Nel breve periodo possono essere anche controproduttive, accelerando l’estrazione di fossili prima che sia troppo tardi. Anche se è illusorio sperare che i grandi paesi produttori di petrolio seguano l’esempio della Danimarca a breve, una moratoria per i combustibili più inquinanti – carbone in testa – sarebbe un grande passo avanti.

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