Conoscete un o una trentenne che oggi abbia un contratto per compilare una Storia della Bellezza, da pubblicare illustrata in formato de luxe? Non è probabile, ma neppure da escludere. Ancor meno probabile è però che a quell'età si abbiano in curriculum quattro anni da funzionari della Rai, altri da funzionari di una casa editrice, la stessa per cui si è pubblicato la propria tesi di laurea in estetica medievale, una Storia illustrata delle invenzioni e una raccolta di saggi sull'estetica contemporanea (che passerà subito in proverbio e verrà poi ristampata per mezzo secolo e più). Nel 1962 tutto ciò era possibile: almeno lo fu per Umberto Eco.
Il progetto di quella Storia della Bellezza però non andò subito in porto. "Per banali ragioni economiche", Eco avrà poi a raccontare, fu interrotto quando lui aveva già fatto gran parte del lavoro, assieme all'artista grafica Renate Ramge con cui aveva già collaborato al libro precedente, sulle invenzioni, e che l'anno successivo avrebbe sposato. Quasi quarant'anni dopo, nel 2001, il faldone con tutti i materiali allora raccolti sulla bellezza fu reperito in remoti scaffali domestici di casa Eco-Ramge. Nel 2002 diventò un Cd Rom pubblicato con Danco Singer, l'editore con cui Eco aveva compiuto già diverse scorribande da pioniere dell'editoria multimediale e telematica; qualche anno dopo uscì il libro, ancora per Bompiani, e primo di una serie di suoi libri illustrati. "Non mi piace lasciare le cose a metà", disse, al proposito, nel 2005, in una delle sue conferenze alla Milanesiana (poi pubblicata dalla Nave di Teseo, nel volume postumo Sulle spalle dei giganti), quella il cui testo ora si leggerà anche nel primo dei volumetti che saranno allegati a Repubblica.
La bellezza? Sì, la bellezza: all'epoca incrociava la grande parte degli interessi di Eco. Aveva cominciato con l'estetica medievale, seguendo le tracce di James Joyce e del suo Dedalus da Tommaso d'Aquino passò alle avanguardie novecentesche e alle poetiche contemporanee. L'arte visiva, l'editoria raffinata e rivolta a un pubblico non elitario ma in espansione, la stessa televisione: la bellezza entra ovunque e allora ricapitolare in libri e conferenze illustrate le vicende secolari della claritas medievale, del Sublime, della proporzione aurea sino ai volti e ai corpi di Hollywood significa tenere assieme il dibattito delle idee e l'interesse per qualcosa che riguarda il mondo, e chiunque. Nessuno come Eco è stato infatti capace di far sentire coinvolto più o meno chicchessia negli scenari intellettuali che evocava con i suoi interventi. Quando morì, Ezio Mauro dettò per lui la più pertinente delle epigrafi: "La cultura come passione". Una passione non solo subìta, beninteso: vissuta, praticata e, soprattutto, comunicata.
Dopo la bellezza, venne la bruttezza: e poi la letteratura della Lista e quella della Nebbia, le vignette della regina Loana e le Terre leggendarie. Nel secolo e millennio nuovi Eco era infatti esonerato da diuturni obblighi universitari e concedeva più tempo a quelle distrazioni e curiosità intellettuali che dagli anni Sessanta aveva frequentato più occasionalmente, preso come fu a svecchiare la cultura italiana con il Gruppo 63, fondare la semiotica, partecipare a un progetto di università per allora totalmente nuovo, inventarsi un ruolo da intellettuale internazionale, scrivere romanzi colti e popolari…
Ma non di sola bellezza, o bruttezza, vive il semiologo: specialmente se gli anni della sua massima autorevolezza sono gli anni in cui la comunicazione si anima di nuovi media, nuovi modi, nuovi linguaggi, nuovi conflitti. Basta consultare gli archivi di Repubblica e le Bustine di Minerva per l'Espresso per vedere come l'ultimo Eco alternasse alla divagazione colta l'affondo analitico sulla contemporaneità. Nella scaletta delle sei lezioni che verranno diffuse con Repubblica nelle prossime settimane, si nota infatti che dopo la bellezza e la bruttezza arriva il gran tema del complotto: perché siamo portati a vedere complotti dietro gli accadimenti che non capiamo, che non approviamo, che non riusciamo o rinunciamo a mettere in una prospettiva storica? È di fronte a interrogativi simili che Eco mobilita i suoi diversi registri e le sue diverse competenze: l'erudizione storica, l'inquadramento filosofico, la cassetta degli attrezzi semiologica ma anche l'antica dimestichezza con la letteratura d'avventura, la passione politica, il natio senso del dovere e persino qualche reminiscenza del fervore cattolico giovanile.
Ci sono i libri, ci sono le università, i giornali, i mezzi di comunicazione di massa, i viaggi: mille possibilità di divertirsi, istruirsi, migliorare come individui e come società. Com'è possibile che ritorni il populismo, che la torva minacciosità del fascismo venga avvertita come veniale, che alla spiegazione razionale sia preferito l'infondato sospetto di manovre nemiche? E in fondo, ma proprio in fondo, perché ai piaceri dell'intelligenza preferiamo quelli della stupidità? Che siano esse stesse relative, come bellezza e bruttezza delle rispettive conferenze? Audace ma saggio, Eco non si poneva esplicitamente questi interrogativi: è a noi che sembra di intravederli tra le righe di quanto ha scritto e detto nei suoi ultimi anni.
I sei testi ora abbinati a Repubblica sono sei schegge del suo lavoro più recente: sei esemplari di un modo di procedere fondato sulla documentazione, sulla ponderazione, su standard qualitativi minimi abbastanza impressionanti, non compiaciuti di sé stessi ma sempre funzionali a quella antica passione attiva e comunicativa, di volta in volta erudita, ilare, civile, vibrante. Si leggono innanzitutto come contributi a quella storia delle idee che è sempre stato un orizzonte affascinante per Eco, proprio perché vi potevano convivere la coscienza storica, la sensibilità filosofica e il metodo interpretativo semiotico. Le idee cambiano e seguendo le loro evoluzioni capiamo anche perché ci troviamo nel mondo in cui ci troviamo.
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