Nel cuore della provincia di Agrigento tira aria di riconciliazione fra i mafiosi che un tempo erano in guerra. Adesso sono più importanti gli affari. E sullo sfondo c’è un solo punto di riferimento, il superlatitante Matteo Messina Denaro. L’ultima indagine dei carabinieri del Ros, che ieri ha portato a 22 fermi disposti dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, fotografa insieme Corleonesi e “scappati”, Cosa nostra e Stidda. Uniti dal desiderio di nuovi investimenti nell’economia legale. Ecco come si riorganizzano i clan.
I mafiosi americani del clan Gambino, i parenti dei “perdenti” nella guerra di mafia degli anni Ottanta, avevano recapitato un’offerta molto interessante ai boss di Agrigento, quelli di rigida fede corleonese: attraverso una società pulita in Sicilia avrebbero fatto arrivare tanti soldi da una banca di Singapore. Una maxi-operazione di riciclaggio. Gli americani erano pure interessati alla zona portuale di Catania. Intanto, in Sicilia, prove di pace e di nuove alleanze correvano fra altri nemici di un tempo: i boss di Cosa nostra e quelli della ricostituita Stidda, tornata in auge dopo la scarcerazione di due ergastolani di rango come Antonio Gallea e Santo Rinallo. Le due mafie si dividevano il grande affare delle intermediazioni sulle vendite dell’uva in provincia di Agrigento. Ogni clan aveva un suo sensale, che veniva imposto agli imprenditori. E i boss intascavano una percentuale sugli affari. Dall’1 al 3 per cento, che equivale anche a centinaia di migliaia di euro.
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Rete di comunicazione
È il racconto della mafia in diretta quello che emerge dall’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Guido, dai sostituti Claudio Camilleri, Gianluca De Leo e Geri Ferrara. In carcere sono finiti cinque autorevoli mafiosi agrigentini, che avevano rapporti con boss di tutta la Sicilia: Calogero Di Caro (al vertice del mandamento di Canicattì), Giancarlo Buggea (organizzatore del mandamento di Canicattì), Luigi Boncori (capo della famiglia di Ravanusa), Giuseppe Sicilia (capo della famiglia di Favara), Giovanni Lauria (capo della famiglia di Licata).
I pm sottolineano «l’unicità di Cosa nostra». E, soprattutto, il canale privilegiato che i padrini agrigentini avrebbero avuto con Matteo Messina Denaro. «Avevano un’attuale e segretissima rete di comunicazione con il latitante — scrivono i magistrati nel provvedimento di fermo — e lo riconoscevano unanimemente come l’unico a cui spetta l’ultima parola» nelle decisioni importanti. Ad esempio, per la nomina di un capomandamento. O per l’affare che gli emissari del clan newyorkese dei Gambino arrivati a Favara proponevano ai siciliani.
Quale sia il canale fra i boss agrigentini e Messina Denaro non lo sappiamo. Ma oggi c’è una certezza in più nella lunga caccia al boss di Castelvetrano che non si riesce ad arrestare dal 1993: «È a tutt’oggi in grado di assumere decisioni delicatissime per gli equilibri di potere di Cosa nostra — è l’analisi di chi indaga — nonostante la sua eccezionale capacità di eclissamento e invisibilità».
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Il messaggero americano
«Si possono fare arrivare dei denari tramite carte di credito», spiegava il boss Giancarlo Buggea a Simone Castello, uno dei postini del boss Bernardo Provenzano che dopo avere scontato una condanna per mafia si era trasferito nella Sicilia orientale, gestendo alcune aziende agricole. Gli americani erano interessati pure alle «zone portuali, lì si possono fare altri discorsi, il posto che interessa è Catania, perché a Palermo c’è già». A cosa si riferiva Buggea? Spiegava che questo tipo di affari avrebbero fruttato il 20 per cento alla famiglia locale. «Appena viene lo incontriamo — diceva ancora a Castello — ce lo portiamo a mangiare».
Nell’aprile del 2019 «l’americano», come lo chiamavano nelle intercettazioni, fece un incontro con alcuni emissari del clan, a Castrofilippo. Ed ecco l’interessante spiegazione che Buggea fece a Castello, segno dei legami antichi fra la mafia americana e quella siciliana: «A New York c’è gente buona di Castrofilippo… io dovevo andarci nel 2005, tre anni prima c’è andato Totò Di Gioia, se n’è andato da Dominick Acquisto, che è un castrofilippese vicino ai Gambino, a quel Calì che hanno ammazzato». Era di Castrofilippo — spiegava anche questo Buggea — l’allora capo della provincia mafiosa di Agrigento, Giuseppe Settecasi, l’unico rappresentante di Cosa nostra siciliana ammesso a partecipare alla storica riunione che si tenne il 14 novembre 1957, ad Apalachin, fra tutte le famiglie d’America. Davvero la storia della mafia. E la stringente attualità.
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In quel colloquio, tutto da decifrare, fece capolino anche un altro affare che i Gambino avrebbero messo in piedi, in Kosovo — così diceva Buggea — questa volta con i parenti palermitani, gli Inzerillo. Un nome venne fatto in particolare, quello di Sandro Mannino, il figlioccio di Totuccio Inzerillo, di recente arrestato dalla squadra mobile nel blitz che ha fermato la riorganizzazione del gruppo Inzerillo a Palermo. Proprio in quella indagine si parlava di carte di credito arrivate a Palermo, con tanti soldi da investire. Ma dove? «Loro hanno i soldi», commentava Castello. Il tesoro della vecchia mafia, mai sequestrato.
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