Nell’anno del lockdown le istituzioni culturali di tutto il mondo hanno dovuto affrontare chiusure, tagli del budget e dei progetti, riduzione del personale; ma la discussione su quali valori un museo debba incarnare nel XXI secolo, su cosa debba esporre, su che rapporto debba instaurare con il territorio e con i suoi pubblici non si è fermato. Anzi, la crisi pandemica, l’acuirsi delle diseguaglianze, l’esplosione delle proteste di Black Lives Matter ha portato il mondo dell’arte a riflettere sui temi più scottanti.
Uno dei più sentiti è, da tempo, il rapporto tra le grandi collezioni dell’Occidente e le opere che conservano, e le nazioni un tempo colonizzate da cui quei beni provengono. Ci sono stati censimenti – come il rapporto redatto nel 2018 da Felwine Sarr e Bénédicte Savoy sui circa 90mila manufatti provenienti dai paesi africani oggi presenti nelle collezioni francesi, dal Louvre al Musée du quai Branly; gesti eclatanti come la dichiarazione del presidente francese Emmanuel Macron durante un viaggio in Burkina Faso di voler cambiare le norme che considerano intangibili e inalienabili tali collezioni per agevolare le restituzioni; dibattiti e polemiche come quella che nel 2020 ha accompagnato a Berlino l’apertura del Forum Humboldt; il caso internazionale del tesoro del Benin (noto internazionalmente come Benin Bronzes) che in parte dovrebbe tornare in Africa, a Benin City, quando nel 2023 aprirà il nuovo Edo Museum of West African Art della città nigeriana.
Tuttavia, avvertono critici e studiosi africani, non è corretto e anzi può rivelarsi miope focalizzare tutta l’attenzione sulla questione delle restituzioni. Ha senso, invece, che finalmente l’Africa arrivi alla ribalta per i suoi artisti e per la sua concezione di ciò che un museo deve mostrare e raccontare, una concezione autonoma rispetto a quella con cui il “museo” è stato concepito in Occidente.
Come ha dichiarato a Traveller il direttore del nuovo museo di Dakar (il Musée des Civilisations noires, inaugurato nel 2018) Hamady Bocoum, “saremo noi a spiegare chi siamo, a diventarne consapevoli”. In un’altra occasione, così aveva affrontato il tema delle restituzioni: “Non possiamo limitare la storia dell’Africa alla colonizzazione, perché quello è un periodo di un secolo e mezzo, e noi abbiamo da coprire sette milioni di anni. Le civiltà africane si evolvono continuamente; possiamo sempre riprodurre ciò che conservato nel mondo occidentale”.
L’accento sulla continuità, su ciò che è viene conservato nel museo come realtà presente, il rapporto molto stretto con la il territorio, sono tratti comuni ai nuovi musei africani. In Togo il Palais de Lomé è stato inaugurato nel novembre del 2019 nell’antica casa del governatore. Diretto da Sonia Lawson, con la mostra Togo of The Kings ha raccontato la storia del passato precoloniale dell’area, mettendo in mostra alcuni oggetti che sono tutt’ora in uso: una comunità locale ha reclamato ad esempio uno scettro rituale che era in mostra per utilizzarlo durante le cerimonie della fine dell’anno, e poi l’ha restituito al museo.
La scrittrice, storica e curatrice Nana Oforiatta-Ayim, che ha curato il padiglione del Ghana per l’ultima Biennale e che guida il Ghana Museum and Heritage Restructuring Project ha scritto di recente un editoriale su The Art Newspaper proprio per sottolineare l’importanza del pubblico, il suo ruolo di “co-curatore” e “co-creatore” in questa nuova concezione museale, che mette al centro l’opera, ma in modo diverso: “L’opera che mostriamo in un certo spazio riflette la realtà delle persone che vivono in quel contesto? È utile per loro, è importante per loro, è trasformativa?”.
The Mobile Museum on it’s Accra stop. Our aim with the MM has been to travel all regions of Ghana exhibiting in communities, collecting narratives & finding out what kind of museums/ structures are right for our context pic.twitter.com/h2rKxKvUa5
— Nana Oforiatta Ayim (@OforiattaAyim) September 22, 2020
I nuovi musei africani in via di realizzazione, dal Pan African Heritage World Museum del Ghana al Ngaren: Museum of Humankind in Kenya, progettato dallo studio Libeskind vicino Nairobi, fino al Museum of Maritime History del Mozambico saranno tutti in grado secondo la curatrice “di esprimere narrazioni dell’alba delle civiltà africane in tutte le loro forme pluralistiche”. Con l’auspicio di poter realizzare nel suo paese un nuovo museo che fin dal progetto sia in grado di restituire “le molte spiritualità delle nostre comunità, del nostro ambiente” e che sia realizzato da un architetto locale, la curatrice conclude con un messaggio per gli europei e gli americani: “In Occidente, i musei stanno cercando di capire come ridefinirsi, come affrontare con onestà il proprio passato: anche coloro che vogliono riparare alle violenze e ai saccheggi attraverso le restituzioni continuano a parlare al posto di coloro che possono parlare per se stessi. In altre parti del mondo, altri tipi di conversazioni sono in atto”. Basta spostare lo sguardo, ad esempio verso l’Africa.
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