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E’ morto Pepi Merisio, fotografo del Novecento cattolico e contadino

“Merisio! Lo so che è lì dietro il cespuglio! Venga pure fuori a fotografare!”. Quando si sentì chiamare da quella voce pacata e solenne, la voce delle encicliche, dell’angelus e dell’urbi et orbi, la voce del papa, a Pepi mancò il fiato. Non stava facendo niente di proibito o di furtivo. Non era un paparazzo. Epoca lo aveva mandato lì, nei giardini privati del Vaticano, dopo una intensa e non facile trattativa per un servizio che nessuno aveva mai fatto: raccontare, con le fotografie, la vita privata di un pontefice, se mai un pontefice ne ha una. Diciamo quella riservata, fuori dalle liturgie, lontano dagli altari e dalle finestre benedicenti.

Quel papa era Paolo VI, l’anno era il 1964, la Chiesa cattolica stava per concludere quel Concilio Vaticano II che l’avrebbe scossa come un terremoto. La sacralità doveva lasciare il posto all’umanità, la ieratica solitudine all’incontro con la società. Ma il segretario privato del pontefice, don Macchi, temeva che la presenza fastidiosa di un fotografo disturbasse troppo le deambulazioni oranti di Sua Santità, e gli aveva chiesto di rendersi praticamente invisibile. Be’ dopo tutto, ci voleva altro per rendersi invisibili al vicario dell’Onnisciente. Quello scoop, “Una giornata col papa”, rese Pepi Merisio celebre nel mondo. E gli procurò la fiducia delle gerarchie, oltre che l’amicizia del papa stesso, che poi seguì ovunque, a Roma e nei viaggi pastorali in mezzo mondo, per quasi un quindicennio.

Pepi Merisio è scomparso oggi nella sua Bergamo, a novant’anni di età. Ricordava quegli anni con passione e tenerezza: anche se, questo lo sapeva bene, finirono per appiccicargli addosso con una colla un po’ troppo tenace quell’etichetta di “fotografo cattolico” che è tutt’altro che sbagliata, ma va molto spiegata.

Cattolico, certo, forse è inevitabile per chi era nato (nel 1931) nella terra più devota d’Italia, la bergamasca, generosa di santi e papi. Precisamente a Caravaggio, all’ombra di un celebre santuario. Sì, Pepi Merisio da Caravaggio, e su quella parentela col grande pittore (il più “fotografico” di tutti, con quei suoi tagli di luce) ci ha sempre scherzato fino a un certo punto, perché pare che anche Michelangelo Merisi avesse anche lui la O finale nel registro dei battesimi. Ma l’immaginario di Pepi Merisio non è così drammatico come quello del pittore barocco. Il suo carattere pendeva più sul romantico. Anzi, quasi sul romanico, come le chiese di una fede antica e semplice. Le fotografie della sua carriera potrebbero essere scolpite nel marmo come le scene di vita contadina, lavori nei campi, vendemmie, fienagioni, che istoriano di vita vissuta i portali delle chiese medievali.

Il capolavoro di Merisio, il suo lavoro più intenso e personale, è la grande trilogia d’esordio, Terra di Bergamo, un cantico delle creature tutto di campagne, borghi, stagioni. La fede che percorre le sue fotografie, non solo quelle “vaticane”, è quella del popolo minuto, dei riti naturali, dei giochi eterni dei bambini, della lunga distanza del tempo umano. Il suo conterraneo Ermanno Olmi ammise l’ispirazione che le immagini di Merisio avevano fornito al suo Albero degli zoccoli. Ma piacevano molto anche a un poeta laico come Mario Luzi.

Sarà stata l’aria caravaggesca, che lo spinse da ragazzino a frequentare il circolo dei fotoamatori del paese. Ma per strada, quando lo vedevano armeggiare con quelle macchinette, lo prendevano in giro: “Cosa vuoi fare da grande, il gobbino?». Il gobbino era il fotografo di strada, che faceva i ritratti ai pellegrini, sul piazzale del santuario, sempre curvo sotto il panno nero della sua macchina di legno a treppiede.

Soldi, il giovane Merisio ne aveva pochi e l’ingranditore se lo era costruito da solo, di compensato. Ma lo sguardo lo aveva lungo. E anche in quell’Italia di provincia, per un ragazzino sveglio, era possibile farsi una cultura. Si mise a leggere le riviste internazionali, a guardare il lavoro dei grandi fotografi americani degli anni Trenta, Evans, Lange, Bourke-White. Così, una sera, quando al rintocco lugubre delle campane entrò nella chiesa infiorata per le esequie dello zio Angelo, “non vidi la veglia funebre, ma una fotografia di Eugene Smith”. Prese la fotocamera e raccontò quel funerale come un photo essay all’americana. Vide quelle foto un grande fotografo, Luigi Crocenzi, e gliele fece pubblicare su Epoca.

Fu l’inizio di una carriera internazionale, i suoi reportage approdarono a Camera, Du, Look, e naturalmente proprio Epoca, dove entrò in quel mitico staff di fotografi (De Biasi, Lotti, Galligani, Bonatti) che restò un unicum nella fotografia italiana. Si considerava un “fotografo lento”. Alla cifra eroica preferiva il senso della storia lunga, che un dramma ce l’ha, ma è nascosto nei gesti quotidiani. Guardava il mondo con occhi da bambino e amava fotografare bambini, ovunque nel mondo si trovasse per lavoro.

“Sono un uomo fortunato, ho visto la civiltà cambiare, dall’antico al moderno”, diceva negli ultimi anni, ma con una punta di insoddisfazione: il mondo era cambiato più di quanto la latitudine umanista del suo sguardo potesse accettare, l’omologazione culturale avanzava e rendeva le fotografie noiose. Ma lo diceva a modo suo, con indulgente ironia, più che con scandalo pasoliniano: “Adesso, se fotografi un pellegrinaggio a Lourdes, devi scriverci sotto: il parroco è il terzo da sinistra, quello con la maglietta rosa”.

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