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Cina, i paria del Capodanno

"Non siamo dei visitatori benvenuti”, dice con un sorriso amaro Yang Meiling. Yang, trentenne minuta, fa le pulizie in un residence del centro di Pechino. Originaria della provincia dello Henan, nel cuore della Cina, è una dei circa 300 milioni di lavoratori migranti del Dragone, cioè persone che si spostano dalle aree rurali verso le grandi città alla ricerca di un impiego e di un salario migliori. Sono operai, carpentieri, fattorini, domestiche, guardiani, camerieri, forza lavoro senza cui le metropoli di Cina smetterebbero di funzionare. Vivono lontano dalle loro famiglie, spesso anche dai compagni e dai figli che "lasciano indietro" ai villaggi. E quest’anno molti di loro non potranno rivederli neppure durante il Capodanno lunare, la vacanza delle vacanze.

Osservazione e quarantena

Per tutte le persone che ritornano da Pechino infatti, come richiesto dal governo, il villaggio di Yang e del marito ha imposto 14 giorni di osservazione, durante i quali è vietato incontrare altra gente. E almeno altri quattordici giorni di isolamento domestico, se non di più, potrebbero toccare loro una volta tornati a nella Capitale. Troppa incertezza: "Non possiamo permetterci di stare un mese in quarantena senza alcun reddito per una vacanza di sette giorni", racconta la domestica. “Per la prima volta passeremo il Capodanno qui in città”.

L'inizio dell'anno del bue

Yang Meiling e il marito non sono gli unici ad essersi rassegnati. Le misure che le autorità hanno introdotto per limitare gli spostamenti renderanno il Capodanno che la Cina celebrerà il 12 febbraio, l’inizio dell’anno del Bue, una festa dimezzata. Normalmente sono 3 miliardi gli spostamenti a cavallo della celebrazione, soprattutto tra le grandi città e i villaggi di origine, la migrazione di massa più grande del Pianeta. Quest’anno il flusso è partito il 28 gennaio, ma secondo le stime del governo dovrebbe essere ridotto almeno del 40 per cento. Una limitazione necessaria, secondo le autorità: i piccoli focolai di coronavirus che sono spuntati nel Nord della Cina nelle ultime settimane sembrano sotto controllo, ma è fondamentale evitare che gli spostamenti su aerei, treni e bus sovraffollati tornino a infiammare il contagio. Lo slogan lanciato dalla propaganda è “restare fermi per le vacanze”, una versione mandarina dell’espressione inglese “staycation”. Ma se la maggior parte dei cittadini condivide la prudenza, in molti si chiedono perché a pagare il prezzo più alto debbano essere ancora una volta gli ultimi, la fascia di popolazione già più penalizzata in questo anno virale.

Il reddito in calo

Dodici mesi fa, quando all’inizio della pandemia la leadership decise di mettere in lockdown la Cina, molti migranti erano già tornati a casa per il Capodanno. Il governo trasformò quella vacanza in una quarantena e per diverse settimane impedì loro di spostarsi in città, un’assenza che per molti, assunti con contratti precari e privi di tutele, significò perdere il posto e la busta paga. Le statistiche mostrano che proprio tra i migranti si è registrata nel 2020 la maggiore diminuzione nel reddito disponibile. Un anno dopo, la situazione è opposta: per non avere problemi con il lavoro molti hanno rinunciato a tornare e vedere la famiglia. Ancora una volta però divieti e limitazioni li colpiscono più duramente: il governo sostiene che il pericolo di contagio sia più alto nelle aree rurali, meno controllate, quindi chi viaggia verso le campagne sarà sottoposto a monitoraggio più stretto. Agli altri, che si spostano verso città o località turistiche, basta presentare un tampone negativo. Una discriminazione geografica e sociale che, chi può, si attrezza per evitare: Xia Yunze, 30 anni, istruttrice di yoga originaria della provincia dello Hunan, racconta che lei e i suoi genitori hanno affittato un appartamento nel capoluogo Changsha, dove non sono previste limitazioni. Non sarà come festeggiare al villaggio, ma almeno la famiglia sarà riunita.

Gli incentivi

Per convincere le persone a non spostarsi, autorità e datori di lavoro stanno mettendo sul piatto anche una serie incentivi. Pechino ha promesso un bonus alle domestiche che restano in città, qualche decina di euro, Hangzhou arriva fino a qualche centinaio di euro per determinate categorie di lavoratori, il centro industriale di Yiwu offre traffico internet e trasporti pubblici gratis, più uno sconto sulle cure mediche negli ospedali locali a cui i migranti, tecnicamente residenti nelle campagne, non hanno di norma accesso. Ma molto più delle carote, limitate, sono i divieti a giocare il ruolo decisivo. Specie a Pechino, dove il livello di prudenza è sempre più alto che nel resto del Paese e tutte le celebrazioni pubbliche, comprese le feste tradizionali nei parchi, sono state cancellate. L’intera pubblica amministrazione e le aziende di Stato hanno “fortemente raccomandato” ai lavoratori di non lasciare la Capitale, suggerimento che in quel contesto equivale a un ordine.

Come per il nostro Natale, la rappresentazione della festa a distanza, in collegamento video, è già entrata in alcuni spot pubblicitari e sarà probabilmente uno dei grandi temi del seguitissimo galà televisivo della vigilia. L’ulteriore sacrificio dei cinesi per contenere la diffusione del virus verrà esaltato a dovere. Nonostante gli sforzi della propaganda e i divieti però, c’è chi ha deciso comunque di affrontare il viaggio. “Non ho visto mia moglie e mio figlio per sei mesi”, racconta alla Bbc Liu, un fattorino delle consegne di Pechino. “Anche se gli ostacoli sono tanti devo comunque tornare. Il punto di lavorare in una grande città è vivere meglio, ma se non puoi neppure vedere la tua famiglia non c’è alcun incentivo a lavorare”.

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